Alla fine rimane quella sensazione da ultimo giorno di gita. Non so per quale motivo, ma mai come questa volta mi dispiace andare via. Eppure, per gli amici del monitoraggio costante, vorrei citare alcuni dati: dal 5 al 10 aprile mai a letto prima delle 2.30, mai sveglio dopo le 7. Giornate piene di lavoro, telefonate, mail, articoli da scrivere. Di notte, perché di giorno le (mia) priorità erano due: le relazioni e la formazione. Nei mesi passati ho saltato alcuni week end per lavoro e non faccio fatica a dire che mi è pesato tantissimo. Tanto che alla fine ho fatto altre scelte, con buona pace di tutti, soprattutto della mia salute. Al Festival del giornalismo di Perugia, invece, non mi sono nemmeno accorto che si è già fatta domenica. Per un semplice motivo: quando fai una cosa che ami, non ti pesa niente. Puoi dormire cinque ore a notte, puoi rispondere alle mail la mattina presto, puoi consegnare un libro a Hoepli (fatto, Facebook for Dummies è pronto!) il sabato notte e puoi persino scrivere i post per i tuoi blog tra un panel e un altro. Fino a qualche settimana fa, pensavo addirittura di non poterne più dei social. Mi ero sbagliato, non ne potevo più di non avere cose belle da pubblicare, sui socia.

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È una questione di passioni e priorità. Non sono ancora un giornalista, devo ancora consegnare le mie carte, ma un tesserino non cambierà la situazione. Non avevo bisogno di un Festival per capire che io non ho, tendenzialmente, le capacità di un giornalista. Ne parlavo con Fabio Fanelli, compagno di avventura in questi giorni, con il quale c’è grande empatia su questo punto. Non siamo persone che amano attenersi ai fatti. E forse tra informare e comunicare, io preferisco comunicare. Credo sia questo il punto cruciale del Festival. Le aziende (la maggior parte, non tutte) non hanno ancora capito che “devono rassegnarsi all’idea di essere diventati editori” (auto citazione, Content Marketing). E così continuano a inviare comunicati stampa che non interessano a nessuno, si parlano addosso, non interagiscano e si allontanano non solo dai clienti, ma anche dagli stakeholder. E organizzare una redazione, oggi, è difficile, perché ci vogliono competenze specifiche, molte delle quali vengono appunto dal giornalismo, con contaminazioni comunicative interessanti quali l’editing di video e foto, la scrittura, la distribuzione e lo storytelling (su questo argomento ho scritto, in questi giorni, un articolo su Il Giornale Digitale).

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Qualche mese fa un collega, e amico, mi disse “Cristiano, non siamo giornalisti. Noi facciamo altro”. Avrei voluto avere gli elementi per potergli rispondere, invece ho dovuto annuire e abbassare la testa. Aveva ragione. Ma è altrettanto vero che noi comunicatori dobbiamo conoscere più elementi possibili del giornalismo. Che nel frattempo è cambiato. Ecco perché molti panel, a Perugia, erano dedicati ai social media, al monitoraggio, al mobile journalism e allo storytelling (anche visual, endorsement per quello di Coca-Cola che ha scelto la bravissima Cinzia Zenocchini per “disegnare” live ciò che veniva detto nel panel. Le parole che porto a casa da questo Festival del giornalismo, al netto di Storytelling, sono tre:

Brand Journalism

Nominato spesso, almeno in 2 panel su 5. Per alcuni giornalisti una bestemmia, è in realtà un’evoluzione positiva del vecchio (e oramai poco efficace) ufficio stampa. Il brand journalism è etico, perché la parola “brand” davanti annuncia che stiamo parlando di un marchio, di un’azienda di un business. Marco Bardazzi, responsabile comunicazione di Eni, ha detto, in un confronto molto acceso con Andrea Vianello, ex direttore di Rai 3, che in fondo “anche i giornali sono brand“. E non ha tutti i torti, anche se l’argomento meriterebbe un approfondimento in altra sede. Stiamo parlando di un marchio, dicevo. Lo sa chi comunica, lo sa chi fruisce. Ci si serve di storie, a patto che siano vere. Credibili. Le aziende che fanno brand journalism seriamente sono organizzate in redazioni, hanno cambiato le regole del gioco, si sono adattate ad orari differenti e ritmi più sostenuti. Sanno gestire le crisi trasformandole in opportunità di comunicazione con i propri stakeholder.

Relazioni

Una vetrina del genere è un’occasione troppo ghiotta per conoscere persone. Roberto Tallei di Sky Tg24, nella hall dell’Hotel Brufani, il cuore del Festival, mi ha detto: “I momenti più importanti del Festival sono tre: i pranzi, l’aperitivo e le cene“. Se volete potete aggiungerci i dopo cena, il running la mattina (anche queste sono occasioni per conoscere persone che stimo come Marco Massarotto di Doing ad esempio), qualche caffè e le passeggiate lungo il corso. Ogni occasione è buona per entrare in contatto con persone che possono arricchirci. Ho detto apposta “arricchire” perché in questo caso devo essere spietato con chi alla fine di ogni panel si tuffa sul relatore di turno solo per raccontargli i propri progetti. In un contesto come questo bisogna sapere aspettare il momento giusto, interessarsi alle persone, dare un’occhiata ai social network (Twitter su tutti), magari per fissare un appuntamento qualche ora più tardi. A patto che si abbia davvero una (già due sono troppe) cosa da dire.

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Influencer

Alcune aziende hanno scelto di inserire nel team queste mitologiche figure (ma esistono davvero? E che fanno oltre a scrivere su Facebook?). Cosa ci fa un influencer al Festival del giornalismo? Si può storcere il naso, ma credo che al netto dei numeri che ancora non ho, la questione si risolve in questa maniera: se ci sono redazioni che devono raccontare, ci vuole qualcuno che crei le premesse affinché ci siano fatti da raccontare. Le modalità sono differenti: c’è chi lo fa con una foto su Instagram, chi con un live tweet, chi con un post su Snapchat o un live su Facebook. Approfondirò l’argomento nel mio prossimo corso sul Digital PR a Bari il 22-23 aprile, al Master Unisco. Il mio parere è che gli influencer, piaccia o meno, simpatici o antipatici, costosi o meno costosi, servano eccome.

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Non è un segreto che durante questo Festival io abbia collaborato con Eni Italia (@Eniday). Avevo seguito qualche mese fa (il 13 dicembre) il caso Eni-Report mi ero fatto una mia idea, ma non è di questo che voglio parlare. È evidente che se avessi considerato Eni un’azienda non in linea con i miei valori non avrei accettato, per una questione di personal branding. Faccio un esempio: non collaborerei mai con un’azienda di sigarette. Ma la cosa che mi colpì, il 13 dicembre, fu la modalità comunicativa di Eni, il “cambiare campo di gioco“. Dalla tv a Twitter, con conseguente rovesciamento (e vittoria) della partita. Una case history molto efficace, non a caso ripresa dal Professor Boccia Artieri, uno che sa darti la giusta lettura di ogni situazione comunicativa e con cui ho avuto la fortuna di cenare ieri sera. Collaborare con il team social Eniday è stata la migliore occasione per capire e approfondire queste dinamiche, che nel mio caso è la cosa più interessante.

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Parlare con Marco Bardazzi, Daniele Chieffi e tutti i ragazzi del team è stata una grande occasione di crescita per me. E badate bene che si cresce sempre, che nessuno è arrivato in questo mestiere. Una sorta di Master in brand journalism all’interno del Festival del giornalismo, con la cornice di una città meravigliosa. Ho visto come si muove davvero un social media team complesso, come lavora una squadra guidata da un bravissimo leader. Uno che si fa capire trasmettendo sicurezza, ma al tempo stesso serenità. In una situazione non priva di difficoltà come quella di Eni, tra inchieste, trivelle e tutto quello che sappiamo, una cosa davvero incredibile. Avendo collaborato quasi sempre con piccole o medie aziende (a parte Betclic e Coca-Cola per le quali però mi limito a scrivere), questa è stata un’occasione irripetibile di crescita professionale, a cavallo tra la comunicazione, il giornalismo e lo storytelling.

Ma cosa sono io? Al tramonto dell’ultimo giorno del Festival del giornalismo, me lo chiedo anche io. Ma credo che, a 36 anni suonati, dovrò imparare a convivere con questo interrogativo accettando il fatto che essere multipotenziale (non multitasking), come dice la scrittrice Emilie Wapnick, è un dono e non un difetto, come qualcuno voleva farmi credere. E se non ho ancora capito chi sono, ho certamente capito chi non sono. E chi non voglio essere mai più.

 

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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