Tra le cose belle della Masterclass21 de La Content, metto al primo posto la possibilità di dialogare con professionisti e persone – le due cose viaggiano spesso insieme – come Luca La Mesa, Angelo Carotenuto, Giuseppe Stigliano, Veronica Gentili e Marina Salamon.
Avevo già avuto la fortuna di intervistare Marina Salamon quando lavoravo per Performance Strategies, fu una chiacchierata molto illuminante su temi come l’imprenditoria, la gendership e la leadership. Questa volta ho provato ad andare ancora oltre, eravamo tutti molto curiosi di conoscere Marina: la donna prima ancora che la grande imprenditrice. Un percorso davvero unico e significativo, il suo. A soli 23 anni intraprende la carriera fondando Altana, società specializzata nella produzione di abbigliamento per bambini. Nel 1991 acquisisce il controllo di Doxa, prima società italiana di ricerche di mercato. Solo un anno dopo ottiene il Premio Bellisario, un riconoscimento che viene dato ogni anno a donne che si sono distinte nella professione, nella scienza, nel management e nella vita sociale italiana e internazionale. A questo seguiranno molti altri premi, menzioni e riconoscimenti per il suo impegno imprenditoriale e sociale.

 

Per il valore di questo scambio, ho pensato di condividere una parte dell’intervista dello scorso giovedì. Eccovi l’estratto.

 

C: Nel backstage abbiamo parlato del fatto che tu hai 8 cani adottati. Ecco, la prima domanda, se posso permettermi, perché già questo è interessante è: con tutte le attività e le società che gestisci come fai a trovare il tempo per i tuoi cani?

M: A casa nostra ci si autogestisce: ciotole di cibo secco nelle ciotole. Lo compri a sacchi e lo trovi a 1 euro al chilo, qualità decente ed equiparabile alle buste di patatine fritte che metti in forno. Però si condivide la vita. Quando lavori fino a notte, tirare una carezza sotto il tavolo ti dà forza. Nei periodi bui sul piano affettivo, prendevo tutto quello che potevo d’amore: o davo o potevo. E poi la vita è andata avanti, sono arrivati anche i figli ma tutti insieme.

C: Tra gli spunti che ogni tanto mi mandi – e ti ringrazio – c’è la frase di un libro che recita «Il successo fa parte del sistema: ci culla, ci fascia, ci gratifica, ci lascia dove siamo. Solo il fallimento ci apre il varco e strappa il velo » (Christiane Singer). Per quanto io faccia anche fatica a immaginare dei tuoi fallimenti, nel senso che poi, la tua vita vista sempre dall’esterno è un’esistenza di ascesa ovviamente e di grandi successi. C’è qualcosa che ci vuoi raccontare, qualche momento difficile che poi ti ha portato a fare nuove considerazioni e a cambiare qualcosa del tuo lavoro anche?

M: Ho fondato Altana, la mia azienda, quando avevo 23 anni e stavo finendo l’università, che in realtà ho finito anni dopo. Mi mancava un’esame e la tesi e mi sono buttata a lavorare. L’ho completata in ritardo perché ormai avevo preso tanto gusto a lavorare e comunque fino a notte fonda. Da quel momento mi sono persino pentita che i primi anni siano andati dritti, senza riuscire a imparare la fatica dell’errore, della sconfitta subito. La prima volta è arrivato tutto di colpo insieme a 34 anni. Aspettavo il mio primo figlio e il padre mi ha lasciata. Ero piena di debiti perché avevo comprato Doxa, l’azienda di mio padre, per amore verso di lui e non perché io sapessi gestire quell’azienda. [..] Mi sono detta «Mi butto» e ho seguito il cuore. In quel momento ho dovuto anche cambiare l’oggetto del lavoro di Altana, perché siamo passati di colpo a produrre vestiti per bambini: avevo il problema di guadagnare velocemente tutto il denaro che serviva a risalire i debiti dell’acquisto di Doxa. Però lavorare tanto, tanto tanto tanto fino a notte mi ha salvata dall’avere preoccupazioni per me stessa. Mio figlio è stato in terapia intensiva a lungo, però era anche il primo bambino che riuscivo ad avere: ne avevo già persi altri. Ma intanto, tutto questo ha fatto in modo che io trovassi l’energia. Era come un istinto animale di cavarsela, di lottare, di reagire. E quindi sono stata fortunata perché non ho proprio potuto occuparmi di me, perché alla notte arrivavo a dormire alle 2 o 3 di notte schiantandomi di stanchezza. Ed è stato il primo grande momento, mi veniva da dire, liberatorio ma non è che prima fossi prigioniera, ma ha liberato le mie migliori energie. Anni dopo, quando sono arrivati altri problemi, io mi sono guardata indietro e mi sono detta «Ehi ce l’hai fatta allora, e quindi ce la farai ora». E quindi certo che sono arrivati altri errori: ho sbagliato soci, collaboratori, aziende… la vita non è fatta di tutte salite dritte e omogenee. Ho peccato di arroganza ma la vita mi ha insegnato a guardare dentro e ad avere il coraggio di tagliare un dito prima di avere in cancrena un braccio. Per me non è vergogna dire che ho fatto qualcosa di sbagliato. Non è affatto vergogna per me dopo aver discusso con una persona tornare e dirle «scusa ero stanca, perdonami». [..] Io ho il carattere di un cinghiale, non a caso mi chiamano “mamma cinghiala”: se vedo un problema, tento di sfondare un cespuglio. Ho capito però che fare del male è inutile e non porta neanche le persone a capire. Ma è stato un lungo percorso: ho 62 anni. Non l’ho mica capito subito?

C.: Si parla di leadership in tante maniere. Tu pensi che un leader di oggi che tipo debba essere? Come si può dare l’esempio nel 2021?

M.: Prima di tutto io non prenderei a modello quello che abbiamo oggi. [..] Il nostro è un capitalismo giovane: non c’è una scuola di umiltà e sobrietà che invece ho visto in altri Paesi e in altri continenti. Non perché gli altri siano migliori, ma solo perché da noi c’è ancora troppo showoff, ossia “faccio vedere chi è più forte”. Che secondo me è un atteggiamento di esercizio di potere che può funzionare nel brevissimo tempo, ma che non costruisce squadra nel medio e nel lungo periodo. Io credo molto di più al valore del “mettersi affianco” e costruire insieme, non perché non occorra un capo: un capo è necessario. Non credo al lavoro di gruppo dove poi nessuno tira le fila. Ma perché il valore del ruolo delle persone sarà molto più determinante rispetto alle macchine o rispetto ai capitali di e per se stessi. [..] Se non troviamo occasioni di giustizia e di riconoscimento del nostro merito ora e qui, magari ci può essere il coraggio di partire oppure la scelta consapevole di restare perché la qualità della mia vita, o la vicinanza a persone care, è più importante oggi. Tutto fatto con la consapevolezza di non subire le scelte. Si può anche partire per poi ritornare, per esempio: non vuol dire emigrare per sempre.

C: Tu sei da sempre in prima linea, proprio con l’esempio, nella questione dei diritti delle donne e della parità di genere. Oggi è cambiata la situazione? Secondo te sta cambiando o come può cambiare?

M: In generale io penso stia cambiando, anche se più lentamente in Italia. Io però non me la sento di dire che è solo colpa della società perché la mia storia è stata quella in cui il lavoro fatto bene mi ha salvata e mi ha restituito la stima di me, quando la parte privata girava male. E quindi io non dico alle donne che mi ascoltano «No, rinuncia.. etc.». Io credo che è meglio non arrivare ai 40 anni con l’angoscia di «Accidenti mi passano gli anni e non riesco più a fare figli» quello no. Però neanche dire «Oddio come faccio?» perché noi siamo figli delle nostre mamme e dei nostri papà, del modello di coppia e di famiglia che ci hanno trasmesso. Quindi guai a noi se ci portiamo dietro delle frustrazioni respirate. [..] Ad esempio perché io sono così? Perché la mia mamma ha fatto il medico: è stata una pediatra che ha lavorato in ospedale. Non aveva paura, quando la chiamavano per le urgenze di notte, di lasciarci da soli. Diceva al più grande «Guarda i piccoli». Quindi noi siamo cresciuti così. [..] Io credo che il problema principale della vostra generazione sarà quello di unire la vita affettiva principale con il lavoro: questo secondo me sarà il casino principale. [..]

Intervista a Marina Salamon (Credits Elle.com)

C: L’ultimo anno con lo smart working forzato ci ha spinti a utilizzare nuove interazioni per poter formare le persone. Siamo stati abituati a formare alle persone in presenza e adesso ci sono i cosiddetti team liquidi. Forse tu, visto che hai varie aziende, eri già abituata a questa modalità. Tu cosa ne pensi? E cosa ne pensi del valore della fatica?
M: Io credo al valore della fatica. Però il confine tra lo sfruttamento delle persone e l’imparare solo ciascuno di noi lo sa e lo può scoprire vivendo. [..] Io ho imparato molto di più quando ho imbarcato le gondole alla sera, nella gestione dei clienti difficili, che non su certi esami universitari. Oppure quando avevo la borsa e andavo a vendere alle catene a Roma: che scuola di vita e di lavoro! Su certe cose, il tema vero è: dove ci viene permesso di imparare? Naturalmente guadagnando dignitosamente quel tanto da vivere, ma imparare da cose che applicheremo in un percorso.

 

C.: Tu hai tante aziende, tante imprese, tante attività. Secondo te come si fa a delegare, fidarsi e non avere quella mania di controllo che ci porta a lavorare male?

 

M: La prima cosa è questa: si può volere bene alle persone umanamente ma nell’esercizio della responsabilità non possiamo confondere l’amicizia con una valutazione critica. Quello che io penso è che dobbiamo proteggere in tutti modi chi sta sotto, cercando di spostare nonché offrire altre opportunità etc., ma chi guida o ha posti di responsabilità deve essere bravo/a. Questo perché io stessa mi sono accorta che persone che all’inizio erano brave, a un certo punto, o si “sedevano” o non evolvevano. Io però volevo bene a queste persone e quindi magari le lasciavo lì, per tanti motivi e ho sbagliato, perché essendo un capo avevo delle responsabilità. Perché un conto è volere bene e un conto è volere il loro bene. Non si sposta quindi la testa dai conflitti.[..] L’importante è la trasparenza.

 

C: Una persona come te, cosa vuoi fare da grande? C’è qualcosa che non hai fatto?

 

M: Cose molto semplici. Vorrei prima di tutto arrivare a occuparmi a tempo pieno ai progetti generici, cosciente però che è mondo molto più difficile per la mia esperienza rispetto alle aziende. [..] Vorrei poi il tempo per amare intorno a me. [..] Vorrei imparare a fare l’orto perché penso sia un modo per meditare. [..]

 

C: Da uno studio condotto per il Padiglione Venezia ho scoperto che l’ecosistema italiano della bellezza produce il 17% del PIL italiano. Questo vuole dire che tra patrimonio culturale e paesaggistico, ci sono molte aziende che producono bellezza. Che cos’è per te la bellezza?

 

M.: Per me la bellezza è tanto quanto la natura, il creato, gli animali. La bellezza è tutto: è lo sguardo di una persona. Io la incontro in ogni persona che vedo. Qui, in questo momento c’è tanta bellezza: la vedo nelle vostre facce. E le aziende – del presente e del futuro – siete voi.

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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