Avevo 5 anni, pressappoco. Non li avevo ancora compiuti e mio padre era solito portarmi in ufficio con lui a passare le mattine, una volta lasciato l’asilo, il Folletto Azzurro. Coloravo, scrivevo, pasticciavo, mi divertivo a far finta di rispondere al telefono. Poi, quando il telefono squillava davvero, scappavo. Andavo a nascondermi sotto un tavolo e aspettavo che il segretario arrivasse a rispondere. Mio padre era l’unico dirigente degli anni ’80 che poteva contare su un segretario maschio. Era un tipo premuroso e simpatico e ogni tanto riceveva in regalo dal mio papà i biglietti dello stadio. Quel pomeriggio no. Aveva promesso che mi avrebbe portato a vedere Platini. La Juventus. La squadra per la quale pensavo di tifare, allora. Quando di calcio non capivo nulla e avevo deciso che di quella squadra mi piacevano il nome e i colori. Leonardo andava a scuola invece. Per lui niente pranzo quel giorno. Un rapido passaggio dal Panificio Carmelitani per comprare un pezzo di focaccia e via verso lo stadio. Un altro calcio, quello per il quale una città intera era capace di fermarsi. Niente Civitanovese, niente Akragas o Casarano come ogni domenica. Quel giorno al Della Vittoria c’è la Juventus.

Leonardo balza in sella al motorino e io lo guardo con invidia. Lui possiede la giovinezza, così come deve essere. Perdere il tempo, oziare, scoprire a piccoli passi tutto quello che la vita ha da offrire: l’amicizia, l’insicurezza, l’amore, la voragine, il sesso. Ecco dove dovrebbero stare i ragazzi oggi, su quel motorino. Se solo sapessero cosa si stanno perdendo. Invece si illudono di essere scaltri a fare scelte da vecchi, cose che la vita ti condannerà a fare dopo: shopping a gogò, fidanzate cialtrone, lavori di seconda mano. Su quel motorino si annida la bellezza, la libertà. Mica nella macchina di mio padre, con tanto di autista. “All’andata abbiamo vinto a Torino, oggi ci basta una pareggio” dice mio padre monitorando la mia attenzione nello specchietto retrovisore. Come abbia fatto, una squadra di serie C a vincere sul campo della Juve, rimane un mistero. Cuccovillo e Lopez, nomi da mestieranti del pallone, avevano riempito di orgoglio la gente e la città un paio di settimane prima. Leonardo mi racconterà che per la gioia un giovane Michele Salomone aveva fatto saltare tutta la sua attrezzatura lasciando in bilico la città per un minuto (il 93′) salvo poi urlare che sì, il Bari era passato in vantaggio a Torino.

Ma quel pomeriggio di febbraio, il 22 febbraio del 1984, la Juve non poteva certo temere una squadra di serie C. Arrivammo allo stadio e mio padre mi invitò a rispettare la coda, mentre Leonardo, con la sua sciarpa al polso la dribblava. Sembrava di stare in una gabbia di leoni, altro che i tornelli. Ci vuole incoscienza a portare un bambino di 5 anni in un posto così. Ecco perché, ogni tanto, qualcuno urlava “Auèè u’ piccinin“, preoccupandosi della mia incolumità. Lo stadio è strapieno, altro che norme, regole, posti a sedere. Lo speaker annuncia le formazioni e all’ingresso in campo una coltre di fumogeni nasconde gli spettatori, i giocatori, lo stadio stesso. Metto in naso sotto il cappotto di mio padre. Si respira odore di fumo e Borghetti. Anche questa è felicità. In campo ci sono i migliori: Gentile, Scirea, Cabrini, Rossi, Platinì, Boniek. Bolchi sceglie un assetto prudente. L’agile punta Galluzzo viene lasciata in panchina, al suo posto un centrocampista in più: Onofrio Loseto, fratello di Giovanni (Juan) Dangnutuzz, a marcare Platini. Leonardo con pazienza mi spiega tutti questi tatticismi e io annuisco. Messina e De Tommasi triangolano, Sola azzanna sulle gambe degli juventini, Alberto Cavasin segue Boniek ovunque, anche fuori dal campo. Le Roy soffre la marcatura di Onofrio Loseto, non c’è che dire Bolchi ha preparato benissimo questa partita.

Al 22′ Cuccovillo chiede ed ottiene il triangolo con Messina, entra in area, viene sfiorato da Gentile e si lascia cadere con indubbia classe. Rigore. Lo stadio esplode. Ma perchè esultano? Mica l’abbiamo segnato il rigore? Ci pensa Messina a spiazzare Tacconi e porta il Bari sull’1 a 0. Adesso servirebbero tre gol alla Juve. Fine primo tempo. Non ci si può muovere neanche per andare a pisciare. Figurarsi per un Borghetti. Leonardo si sbraccia per chiamare l’attenzione degli amici. Ne ha molti, un giorno anche io sarà come lui, penso. Secondo tempo: nel Bari c’è Elia Acerbis, un centrocampista in più. Ma Le Roy accende la luce. Assist per Cabrini che fulmina Conti con un tocco di fino. La Juve preme, Bolchi sostituisce Messina con Galluzzo, la differenza di categoria comincia ad essere lampante e l’impresa si allontana. Soprattutto all’84’ quando Vignola crossa in area per Tardelli che insacca pareggiando i conti dell’andata, 1 a 2. Stadio ammutolito, qualche bestemmia, molti doppiofedisti. Io no. Comincio ad odiarli questi con la maglia bianconera. Leonardo mi presta la sua sciarpa del Bari. Vedrai che se la metti tu porta fortuna. Se il Bari pareggia torno a casa a piedi. La Juve vuole chiudere la pratica ma Sola con un tackle deciso strappa un pallone a metà campo e allunga per Lopez. Lo vediamo venirci incontro, nella sua progressione. Stanco, affaticato, ma deciso. Verso la Nord. Davanti a noi un solo ostacolo: Scirea, il difensore più forte del mondo. Che lo atterra. E stavolta il rigore ci sta tutto. Peccato non ci sia più il rigorista, Messina. Lopez prende il pallone e si avvicina al dischetto.

Tacconi prova a innervosirlo, ma il rigore della vita non si può sbagliare. Lui barese verace, dopo una carriera in giro per l’Italia, pensa alla serie A da riconquistare; a quanto sarebbe bello giocare ogni domenica contro il Milan, l’Inter, la Juve la Roma. A quella curva che ha di fronte e meriterebbe di riempirsi di gioia e passione. Sempre, non solo di mercoledì. Lo stadio aspetta in silenzio. Poi la rincorsa. Un piatto destro. Portiere da una parte, palla dall’altra. Apoteosi. Il Bari, una piccola squadra di C approda ai quarti di finale di Coppa Italia (arriverà fino in semifinale battendo addirittura la Fiorentina). La Juve del Trap, che vincerà tutto, è eliminata. Messina, Galluzzo, Guastella e Lopez hanno fatto fuori Boniek, Scirea, Platini e Paolo Rossi. La festa si protrae nelle strade di una città solare, speranzosa, ottimista. Come gli anni ’80. Come Leonardo, che rivedrò spesso da quel giorno in poi. E che un giorno ritroverà su Facebook, a raccontarmi questa storia. E molte altre. Conservo ancora la sua sciarpa, come se questi anni non fossero mai passati. Chissà se quel giorno è tornato davvero a casa a piedi.

ps: si ringrazia per il preziosissimo contributo Leonardo Losito che a partire da questa puntata mi aiuterà a ricordare le partite meno recenti, con grande passione e dovizia di particolari.

Nella foto, gentilmente concessa da Michele Zonno, Franco Baldini, ex ds della Roma, ora braccio destro di Fabio Capello.

 

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

4 Comments —

  1. Facevo il 4 ginnasio , al Flacco, saltai l’ultima ore ed a piedi raggiunsi il Della Vittoria, mi misi in fila alle gabbie per vedere il Partitone, una giornata indimenticabile!!!!!!

  2. “La Juventus. La squadra per la quale pensavo di tifare, allora. Quando di calcio non capivo nulla e avevo deciso che di quella squadra mi piacevano il nome e i colori” putroppo sono stati anche i miei pensieri per un po’. Ma anche io non capivo nulla di calcio. Of course.

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