Un anno. Ed è come se fosse successo ieri. Anzi un’ora fa. Adesso che ci penso mi sembra ancora di essere lì, dopo il fischio finale. Orgoglio, petto in fuori, speranza. “Andiamo a vincere a Latina, non possiamo uscire così“. L’8 giugno del 2104 il Bari si gioca la partita più coinvolgente della sua storia. Forse non la più importante, ma sicuramente quella a cui nessuno vuole mancare. Più di un match contro la Juventus. Più di uno contro l’Inter di Mourinho, o un derby contro il Lecce. Si gioca contro il Latina, ma l’avversario non conta nulla. È solo una questione di priscio come dice il mio amico Fabio Fanelli, autore dei testi di “Una meravigliosa stagione fallimentare“. Siamo partiti da zero, un fallimento, uno stadio vuoto, e siamo qui a giocarci la serie A. La città freme, e lo capisci andando in giro per Bari, la mattina. Io scelgo San Nicola, la Basilica, perché ho voglia di viverla lì, a Bari vecchia, questa vigilia. Stanno per iniziare i Mondiali, ma i nostri Mondiali sono solo a tinte biancorosse. Le bandiere sono ovunque, vicino al panificio Fiore, tra una contrada e l’altra, appese sui balconi.
La partita è alle 18.00 ma tutto quello che c’è prima è propedeutico. La colazione, la passeggiata, il pranzo. Riti su ogni tavola. “A che ora andiamo allo stadio?“. “Alle 15 ci muoviamo“. “Anche prima“. La città non vede l’ora. Non è la partita, non è l’avversario, è la voglia di stare insieme ancora una volta. Tutti, occasionali compresi. Perché è anche grazie a loro che lo stadio si riempie. E oggi non ne basterebbero tre di stadi, perché tutti i baresi vorrebbero essere qui. Altro che il mare, il caldo, la gita. Qui freme la vita, lo capisci dai volti dei giocatori (o meglio, dai ragazzi, perché di questo si tratta quando parli di Polenta, Defendi, Beltrame e Sciaudone) che scendono in campo per il giro di perlustrazione e alzano lo sguardo attoniti. Poi, quasi inconsapevolmente, prendono lo smartphone dalla tasca e scattano delle foto. Ciao mamma, oggi gioco qui, e chissà quando mi ricapita. Perché non ricapiterà a molti di loro, e lo sanno.
La coreografia è profana, ma per i tifosi è sacra: in una parola è barese, con tutto quello che questo aggettivo comporta. C’è San Nicola, c’è una grazia da chiedere, ci sono i cartoncini colorati con la scritta “il sogno continua“. E qui, in questo stadio privo di coperture, senza cinema e negozi, senza facilitazioni di alcun tipo, il sogno è il più bello del mondo: vincere per tornare ancora. A riabbracciare chi è seduto vicino a te. E più si va avanti più quell’abbraccio è forte, sentito. Perché dietro ci sono le sofferenze di un fallimento, le umiliazioni di uno stadio vuoto, i chilometri sotto il culo di chi (e siamo in tanti) ogni sabato mattina prende la macchina e se ne spara 200/300/800 solo per esserci. Da Milano, da Roma, da Bologna. Con la paura di non arrivare in tempo per l’inno. Quando “Bari unica e sola” si alza sempre più alto e “Bari nel nostro cuore” con la u e la o sguaiatamente aperte ti entra nell’anima.
Il Bari va sotto, il gol è irregolare, ma non ci si può abbattere. Il problema è che il Latina attacca, in alcuni frangenti sembra più forte, soprattutto ad inizio ripresa quando va ripetutamente vicino al secondo gol. La difesa del Bari trema, finché non cambia il vento. E il vento è quello dei balcani: un ragazzo arrivato dall’Albania 22 anni prima. Non importa se con la Vlora o no, importa come è stato accolto dalla gente barese. Lezioni di vita e di stile a Salvini e compagni. Ecco perché Edgar Cani, con Bari, ha un conto in sospeso. Un debito. Ed è pensando a quel debito che salta più in alto delle mani del portiere avversario e scaraventa il pallone in rete facendo impazzire lo stadio. Non è solo esultanza. È una mano che batte sul petto, forte, più volte. È un pugno levato al cielo, per molti il ringraziamento a qualcuno che non c’è più. È la bellezza del calcio.
Passano cinque minuti e per la prima volta assisto ad un gol segnato dal pubblico. Il pallone è lì, nell’area del Latina. È un pallone che rimbalza senza tenere conto delle più elementari leggi della fisica, in maniera sconclusionata. Quando 60.000 persone soffiano sul pallone e su Joao Silva per spingere quel cuoio in rete. Dopo ricordo solo l’esultanza. Il miracolo, la commozione. Sì, ricordo di aver pianto, e di non essere stato l’unico. Perché io una partita di Coppa dei Campioni non l’ho vista mai, e non mi sono mai giocato lo scudetto in uno stadio. Ma se vi dico che quello è stato il momento più bello, quello in cui ho ringraziato il cielo di avermi regalato la passione del Bari e del calcio, anzi del pallone, vi prego di credermi. Il resto conta poco: la ola spropositata degli ultimi minuti, il pareggi di Ristovsky, la delusione e la speranza. Il ritorno, e quello che non c’è stato. Ma poco importa, vincere non è l’unica cosa che conta. Almeno per noi.