L’idea di giocare a Santo Stefano mi piace, fa molto calcio inglese. The Boxing Day, lo chiamano così da quelle parti. Stadi pieni, cappelli da babbo natale e tanto entusiasmo. Al San Nicola, il 26 dicembre del 2013, sembra la festa dei morti invece. Allo stadio non c’è nessuno, nemmeno gli abbonati, anche perché la Società non ha nemmeno aperto la campagna abbonamenti. Rinunciare al pranzo festivo per assistere a questo spettacolo è una scelta davvero poco felice. Ma, a me, il Boxing Day piace, e così allo stadio decido di andarci lo stesso. Anche perché non vivendo a Bari sono poche le occasioni che ho per godermi, si fa per dire, i colori biancorossi. Con me c’è Giulia, marchigiana di Jesi e poco interessata di vicende pallonare. Non devo convincerla a seguirmi, ha un cuore grande così e si entusiasma facilmente. Ma il suo esordio al San Nicola avrà ben poco a che vedere con quello che vedrà solo qualche mese dopo.

Una volta qui era tutto pieno“, le dico, come per cercare una giustificazione alla desolazione. Una scusa. Ma chi ci crede? Come fa a credermi? Annuisce, si guarda intorno. Si sta troppo larghi in effetti, arrivano folate di vento gelido. Imponderabili, umide, quasi tracotanti.

Ci sediamo qui“, le dico. Come se avessimo bisogno di scegliere un posto. Siamo in cento, sì e no. Poi, la fatidica domanda: “Ma perché non c’è nessuno?” E rispiego per il trentesimo anno di seguito la storia di quei signori che ci tengono in ostaggio, che non investono, che non comunicano. Mi annoio ad ascoltarmi. Posto un paio di foto su Facebook. Lo stadio vuoto, la pioggia che nel frattempo è iniziata a cadere. È il mio modo di chiedere “aiuto”. Non lasciateci soli, non così. Un paio di amici mi prendono per il culo, senza mezzi termini. “Angor dret u Baar vè”? È la sentenza dei tempi bui, quella di chi ti invita a non credere nelle favole, a pensare ad altre cose più interessanti di undici sconosciuti, perché tali sono questi Sabelli, Guarna e Sciaudone, che corrono dietro ad un pallone.

Ancora dietro al Bari vai”? Mi rimbalza in testa quel ritornello. Mia madre che si preoccupa ogni volta che le dico che vado allo stadio. “Pensavo avessi smesso“, come se la Bari fosse un vizio, una droga. E che io alle favole vorrei crederci ancora. Per questo non ho mai mollato il calcio, perché dietro ad un pallone si nascondono tante di quelle storie che non ve le potete nemmeno immaginare. E uno stadio vuoto, deserto, triste, imbronciato e brutto può diventare il più bello del mondo. E quel giorno anche queste cazzo di coperture che sono volate via (neanche fossimo a Bogotà) non le noteremo più, e tutto ci sembrerà bellissimo. Vedrai Giulia, sarà così anche per te.

Si gioca con lo Spezia di Devis Mangia, un allenatore che impareremo a conoscere, mai ad apprezzare. Lo speaker accenna i nomi di undici carneadi: Guarna, Ceppitelli, Romizi, Polenta, Joao Silva e via dicendo. Vestono la maglia della mia squadra ma se li incontrassi per le vie del centro di Bari non li riconoscerei. Parte l’inno Bari Grande Amore, ma io abbasso la testa. Ripenso a quella volta, contro l’Empoli, che l’abbiamo cantata in 50 mila. Non accadrà più. Una lacrima mi solca il viso e Giulia se ne accorge. “Che hai?” Mi chiede.

“Niente, è solo il vento che quando soffia forte mi fa lacrimare”.

Lo Spezia gioca meglio, e ci fa gol. Il Bari ci prova. I ragazzi sono volenterosi, ma quelli là sembrano troppo più forti di noi. Forse, se i nostri potessero giocare davanti a qualche spettatore in più sarebbe un’altra storia. E pensare che in Inghilterra, a Santo Stefano, si assiste allo spettacolo più bello del mondo. Qui non solo non sembra una partita di calcio. Non sembra nemmeno Natale. È la magia ad essere lontana anni luce da questo stadio. È persa nei meandri dei ricordi di partite giocate da un’altra Bari. Da altri eroi. Protti, Tovalieri, Maiellaro, Loseto, Ingesson e Almiron. Tu che ne sai Giulia? Come faccio a raccontarti questa storia in questo stadio vuoto, mentre quelli vestiti di nero ci stanno dominando? Eccolo Guarna che sbaglia l’uscita, il nostro Christmas Box è completo. Mangia esulta, due a zero per loro. Non lo sa che tra qualche mese si siederà su quell’altra panchina, e avrà poche occasioni per gioire. Quanta è strana la vita alle volte. Come cambiano le cose nel giro di dodici mesi. Dallo sconforto alla gioia, passando per la delusione e la speranza. Lo sai anche tu Giulia.

Alzo lo sguardo verso i fari spenti, le coperture volate via e penso che è ora di abbatterlo questo stadio. Almeno così finisce l’agonia. Tanto non lo riempiremo mai più. La domanda di Giulia è pertinente: “Ma perché hanno fatto uno stadio così grande?” 

“Perché negli anni Novanta il calcio soffriva di mania di grandezza, e questa città anche” rispondo. Mi riprometto che questa è l’ultima volta. Il San Nicola non mi vedrà più, almeno per quest’anno. La classifica non la guardo, ma intuisco che siamo in piena zona retrocessione. Poco male, meglio azzerare tutto e ripartire. Giulia si è presa un brutto raffreddore. Tossisce e io mi sento in colpa. Non se lo merita. Non ci vorrà tornare mai più a vedere la Bari, ma lei resta in silenzio, mi osserva e chiede, con inconsueta discrezione: “Mi racconti di quella volta che lo stadio era pieno”? Non mi restano che i racconti. Non credo che avrai tempo, Giulia, per vedere il resto. Ci vorrebbe un miracolo per vedere di nuovo questo stadio pieno, ci vorrà una vita per rivedere i bambini giocare in città con la maglia del Bari. Non sanno nemmeno chi è il numero 10, d’altronde. E nemmeno io, adesso che ci penso. E chissà quando i bar torneranno a riempirsi di sciarpe biancorosse qualche ora prima della partita. Ho 35 anni e non credo più alle favole, Giulia. Ma quello che vedrai tra sei mesi non te lo dimenticherai mai più.

ps: il post è ispirato dal racconto “Giulia” scritto da me per “Che Storia La Bari”, progetto editoriale curato dal sottoscritto e da Mirko Cafaro per Gelsorosso. 

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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