Al diavolo il calendario editoriale: il pezzo sul lavorare per amore sarebbe dovuto uscire ieri, festa degli innamorati. Invece ho trovato il tempo per scriverlo oggi, giorno della festa dei cornuti. Magari è un segnale, penso che mi farò un paio di domande. E sì, perché ad amare troppo il proprio mestiere si finisce, certe volte, per prendere sonore batoste, perché si vive il tutto in maniera molto meno distaccata, ma l’amore è così, prendere o lasciare. E noi (sì, parlo proprio a te) siamo gente di sentimento. Il calendario mi fa un brutto scherzo e mi ricorda che proprio un anno fa lasciavo il mio lavoro, e quindi il mio stipendio, da dipendente per dedicarmi alla libera professione. Sui pro e sui contro ho già scritto un pezzo qualche settimana fa, per cui non ci torno. È bene, invece, tornare sul tema dell’amore.
Ho imparato in questi 12 mesi, ma non vi nego che avevo già iniziato a muovermi prima, a distinguere progetti che mi appassionano da progetti che non mi smuovono. Non è per tutti così, me ne rendo conto, ma io ho bisogno di innamorarmi di qualcosa. Fosse anche la filiera di un’azienda di pasta, o la produzione di frutta secca (a proposito, ho imparato cose fantastiche sull’alimentazione nelle ultime settimane). Ed è in questo assunto che si può capovolgere l’articolo: in un’epoca in cui i partner professionali si scelgono, bisogna anche essere abili a cercarsi. E non tutte le aziende hanno questa abilità. Continuo a pensare che la metodologia anni ’80 non sia produttiva. Frasi come “prendere il fornitore per il collo” o anche lo stesso “aggredire il mercato” (avevo un professore, al Master, che si incazzava se non usavamo “aggredire” davanti a “mercato”), mi sembrano, oltre che anacronistiche, poco produttive in una strategia a lungo termine.
Io mi occupo di content marketing, di formazione e di storytelling: per costruire una storia ci vuole pazienza, bisogna entrare in empatia, e l’azienda ha un ruolo importantissimo, che non è soltanto quello del committente. L’azienda racconta i propri valori quando manda una mail, quando scrive su Facebook, quando sposa un progetto, quando organizza un evento. Quando paga un fornitore. Oggi non è difficile trovare persone competenti, ma è molto difficile trovare un’empatia, una linea comune di narrazione, è molto difficile trovare amore. Il digital marketing funziona come tutte le metafore del mondo: non basta avere i migliori musicisti per avere una grande band, e non basta radunare i migliori undici calciatori per avere una squadra imbattibile. Certo aiuta, ma non è di per sé sufficiente.
Ci vuole una definizione chiara dei ruoli, mi si dirà. Ed è verissimo, ma non è ancora abbastanza. Perché a questo punto entra in scena l’attaccamento, l’amore e la simpatia, intesa come sum + pathos, dal greco, ovvero la condivisione dei sentimenti. In questi 12 mesi ho visto tanti progetti raggiungere successi sperati, pur non contando sui migliori, e nemmeno su un budget altissimo, al tempo stesso ne ho visti fallire altri perché il committente, in questo caso negativo sì, possiamo chiamarlo così, non ci credeva o semplicemente perché gli uomini scelti non erano quelli giusti. La grande criticità è che non si può insegnare a nessuno ad innamorarsi del proprio lavoro. E si fa fatica a cambiare la mentalità di un’azienda che non è abituata a condividere. Raccontarsi può servire, ma lo storytelling non risolve problemi.
Andrea Fontana, vero punto di riferimento in ambito di Storytelling, dice che il vero ha due parti: descrizione di un fatto e narrazione del suo significato. Io ne aggiungo un’altra, ed è la capacità di spingere un’azienda a raccontarsi. Possibilmente con amore. Antonio Sofia, mio amico e persona di assoluto spessore, dice che non ama il proprio lavoro, ma la possibilità che gli dà di poter crescere serenamente sua figlia. È una frase che mi ha aperto un mondo, perché mi ha fatto capire che non tutti possono permettersi di amare il proprio lavoro, e di fare scelte consigliate dai guru da quattro soldi “Non sei felice? Cambia, diventa una star in cinque mosse…” e amenità varie. Mi ha fatto riflettere perché mi ha fatto capire che si può amare qualcosa andando oltre il proprio orticello, con lucidità e visione di insieme. Ma questa è già, di per sé, una condizione sufficiente per fare le cose benissimo. Amare qualcosa è l’unico modo per entrare in empatia con le persone, con i clienti, con i collaboratori. Non c’è storia, senza amore. Buon San Valentino passato.