Ultimamente mi capita di dover spiegare spesso cos’è lo Storytelling. Di definizioni ne sono state date anche troppe, vi basterà andare su Google e cercarne una più o meno valida. Poi scegliete quella che vi piace di più e il gioco è fatto. Potrete spararla a caratteri cubitali nella vostra presentazione in Pauerpoint. Io, per indole, cerco sempre degli esempi. Sono quelli che appassionano e ci permettono di spiegare nel miglior modo possibile una tecnica di narrazione. Quindi rinuncio alla definizione e passo direttamente all’esempio.

La lampadina si accende ieri, in un locale, davanti ad una tv accesa, senza audio. Passano immagini di lottatori super muscolosi, con nomi e costumi improponibili. Una disciplina assai poco olimpica (visto che è periodo, con Sochi 2014) chiamata Wrestling. Un’epifania. Mi ero quasi dimenticato di questo show eppure da piccolo il Wrestling, nonostante il nome impronunciabile, mi piaceva. Sapevo benissimo che non era uno sport, e i miei genitori facevano di tutto per non farmelo vedere. In fondo quali valori poteva insegnarmi questa disciplina? Nessuno che fosse sportivo ovviamente.

Però, c’è sempre un però. Se c’è una cosa che il Wrestling, soprattutto quello dei primi anni ’90, mi ha insegnato, in maniera inconsapevole, è lo Storytelling. Tutti, anche i bambini (fruitori numero uno dello spettacolo), sapevano che non c’era nulla di vero in quei combattimenti, eppure ne restavano affascinati. Perché? Perché gli ingredienti della contesa erano semplici ed efficaci. I protagonisti avevano un ruolo preciso: il buono, detto Face, il cattivo detto anche Monster Heel, il bello (il Macho) e il brutto. Personaggi dai costumi coloratissimi e dalla mimica inconfondibile che davano vita a vere e proprie lotte ideologiche.

Da tramandare ai posteri quella tra Hulk Hogan, simbolo del way of life americano, amico dei bambini e osannato dalla folla, e il celebre colonnello Slaughter che, nel bel mezzo della guerra del Golfo, rappresentava il nemico di un paese intero. Si presentava agli incontri con la bandiera irachena e incuteva timore ai bambini, più di quanta ne potesse incutere un personaggio di un film che contribuì ad accrescere nei bambini occidentali il senso di diffidenza verso quelli che stavano al di là del muro (di Berlino): Ivan Drago, nemico di Rocky Balboa nel quarto capitolo della serie. La narrazione, o meglio lo Storytelling comprendeva figurine, giocattoli, videogiochi, commentatori entusiasmanti come Dan Peterson, voce della domenica mattina.

I colpi di scena erano pochi, eppure noi bambini restavamo incollati alla televisione per vedere Jake The Snake liberare il suo serpente, il Barbiere Pazzo tagliare la chioma dei suoi nemici o The Undertaker seppellire gli sconfitti. Quest’ultimo non era proprio un tipo raccomandabile. Non ci faceva dormire, ma nello Storytelling anche gli incubi sono fondamentali se c’è un Ultimate Warrior pronto a spazzarli via. Lo Storytelling si diffondeva attraverso il passaparola ed era impossibile restarne fuori. Una narrazione che è costata molto cara a diversi “attori” morti prematuramente, ma questa è un’altra storia da analizzare magari in un altro post con un taglio diverso, da persone più autorevoli di me nel campo. Oggi vi basti l’esempio di uno spettacolo scontato e privo di valori che diventa un successo di Storytelling in un epoca in cui di questa tecnica di narrazione non era stata ancora codificata. Altro che il Mulino Bianco.

E tu quali ricordi hai degli “eroi” del Wrestling?

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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