Io sono un doppiofedista, purtroppo. Ma non è stata tutta colpa mia se, in una notte di giugno, mio padre mi portò allo stadio con l’inganno. Si festeggia la promozione mi disse, andiamo al Della Vittoria, c’è una festa. Già una festa, solo che era anche la festa di quegli altri. Quelli con la maglia nerazzurra. Avevano appena vinto lo scudetto e dentro di me pensavo fossero la squadra più forte del mondo. Ricordo ancora la formazione: Zenga, Bergomi, Breheme, Matteoli, Ferri, Mandorlini, Bianchi, Berti, Diaz, Matthaus, Serena. Dall’1 all’11, senza sosta, nessuna possibilità di sbagliare, giocavano sempre e solo loro. Mica mi aveva avvertito, mio padre, che quello scudetto dei record, una cavalcata impressionante che portò a 58 punti la squadra di Trapattoni sarebbe stato un caso isolato.
D’altronde lui era milanista, ma non mi aveva mai fatto il lavaggio del cervello. Il Bari prima di tutto, diceva, e quello l’avrei imparato bene. Le cosidette “grandi” erano solo un passatempo televisivo per lui. Lui che amava il mercoledì di coppa e “tifava per tutte le italiane“, una cosa che io non sarei mai riuscito a fare negli anni a seguire. La sua sportività era quasi odiosa. Se l’avversario meritava applaudiva. Se doveva esultare lo faceva restando seduto. Qualche mese prima restai a guardarlo durante Milan – Real Madrid, semifinale di Coppa dei Campioni. La squadra di Sacchi giocò la più bella partita che io ricordi, a memoria. O forse fu la mia mente di bambino a vederla così. Una partita perfetta. Gli brillavano gli occhi e io rimasi estasiato da quel gioco e da quel suo modo di goderselo. Gli olandesi del Milan sapevano come coccolarlo.
Poi arrivava la domenica e quel rito della perfezione, quella macchina perfetta (pressing, fuorigioco e fantasia), lasciava il posto al calcio vero, almeno per noi. Quello fatto di code interminabili, di parcheggi creativi, di panini con la braciola e solo posti in piedi. Siamo a maggio del 1989, io ho 10 anni, e per trovare posto allo stadio devi muoverti almeno un paio di ore prima. Il Bari è forte, ma forte davvero. Lotta con il Genoa per andare in A, ma già da marzo è chiaro che in A ci andranno entrambe. Le altre possono solo inseguire. Ad aprile si gioca un match fondamentale contro la Cremonese, in casa. Finisce 4 a 0 e il Bari lancia il suo segnale, forte e chiaro. Tornerà in A. Accade in una domenica di fine maggio, in casa contro il Cosenza. Il Bari perde 3 a 0 ma viene promosso. Mi perdo nei calcoli, vedo gente che festeggia, mi accodo, ma con cautela. Come si può festeggiare una sconfitta? Siamo in serie A figliolo, rilassati. Il resto è accademia. Le partite contro Messina e Monza servono solo a far festa, e che festa.
Anche la formazione del Bari diventa una filastrocca, una litania: Mannini, Loseto, Carrera, Terracenere, De Trizio, Armenise, Perrone, Di Gennaro, Scarafoni, Maiellaro, Monelli. Mio padre mi tiene per mano, mi racconta aneddoti sui giocatori, ma io so già tutto. Ho studiato a casa, sono mica uno che improvvisa. Il Bari gioca in maglia rossa, l’Inter, campione d’Italia, con “la consueta casacca nerazzurra” come direbbe Pizzul. Mi innamoro. Di quelle due squadre, di quel clima, di quel calcio. In fondo anche quei nerazzurri mi stanno simpatici, e che ci posso fare, abbiate pietà di me, ho solo 10 anni. Della partita ricordo poco. Un gol di Perrone, di testa. Con il pallone che passa sotto la pancia di Astutillo Malgioglio. Il boato dello stadio per il nostro piccolo “bello di notte“, quello che un anno dopo, deciderà anche la finale di Mitropa Cup che, ad oggi, resta l’unico trofeo vinto dalla mia squadra.
Poi il pareggio di Matteoli, un tiro da fuori area, la mia faccia preoccupata. Ma è solo un amichevole, dice mio padre. il risultato non conta, è una festa. E festa fu, per tutta la notte. Tornando a casa lo guardo e gli dico “Ti dispiace se come altra squadra tifo Inter? Mi stanno più simpatici del Milan”. Ci pensò un attimo. Anche i miei fratelli tifavano Milan. Poi rise. Ma ricordati che il Bari viene prima di tutto. Lo presi in parola. Volevo essere sportivo come lui. Lui che tra Milan e Napoli sperava che lo scudetto andasse al San Paolo, perché quella era una squadra del Sud e “c’era tanto bisogno di quel titolo“. Non ce l’avrei mai fatta. Avrei messo il Bari avanti a tutto, sempre e comunque. Ma sarei diventato un doppiofedista, e non mi sarei mai più ripreso. E soprattutto non avrei visto l’Inter vincere uno scudetto per quasi vent’anni. Questa è la mia confessione, siate comprensivi.
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