Un racconto breve, che ( forse) diventerà un romanzo. Un esperimento. Ve lo dono a puntate. Abbiatene cura. 

Si era seduta su una panca nella sala d’attesa deserta tenendo la borsetta sulle ginocchia. La biglietteria era chiusa e non c’era un’anima in giro. Perfino il parcheggio davanti alla stazione era vuoto. Fabriano, stazione di Fabriano. Quanta solitudine in quell’annuncio. Aveva posato lo sguardo sul grande orologio a parete. Io la guardavo come guarda un motore uno che di mestiere non fa il meccanico: con mistero. La porta della sala d’attesa si aprì. Lei volse lo sguardo verso il tabellone degli orari e i nostri occhi, per la prima volta, si incrociarono. Eravamo soli. Io e il suo volto così esotico, fascinoso, ingenuo. Ingenuità forzata, da primo giorno di scuola. Ebbi paura di avvicinarmi. Pensavo che potesse sembrare invadente e poco cortese cercare un po’ di compagnia in un posto come quello. Così mi convinsi che stesse aspettando qualcuno e presto mi rimisi a fare quello che stavo facendo. Un cazzo. Non ricordo cosa ci facessi quel mercoledi sera alla stazione dei treni del mio paese. Faceva un caldo asfissiante e il mare era un lontano ricordo. Di infanzia. Mi capitava sovente di uscire senza un motivo. Nella sala d’attesa non c’era nulla che annunciasse treni in arrivo e in partenza. Lei era pronta ad aspettare ad oltranza, almeno questo era quello che diceva il suo sorriso decisamente fuori luogo. La sua fiducia ingiustificata nell’incertezza e nella desolazione di quella stazione. Convinta che prima o poi un treno sarebbe arrivato, lei ci sarebbe salita e sarebbe andata via da quella città. Respirai forte. Entrai nella sala. Sentivo il bisogno di umanità.

«Buona sera» le dissi con fare d’altri tempi, tradendo in un sol colpo i suoi vent’anni e i miei quasi trenta.

«Hello» mi rispose. Cercai la seconda battuta, quella più difficile. Nel frattempo lei tirò fuori dalla borsetta un pacchetto di sigarette, lo scartò, ne prese una e l’appoggiò tra le labbra rosse, di caramella. Riportò la mano alla tasca, rovistò in quelle dei pantaloni e cercò di richiamare la mia attenzione con le sopracciglia, senza fiatare. Lasciando che fosse l’evidenza del gesto a parlare.

«Io non fumo» fui costretto a risponderle, con sommo dispiacere. Lei si passò ancora una volta in rassegna le tasche poi, sospirando di delusione per il piacere mancato, tolse la sigaretta dalla bocca, la infilò nel pacchetto e ripose il tutto di nuovo nella borsa. Mi dispiacque molto.

«Posso chiederti cosa ci fai tutta sola in questa sala? Cioè, qui di notte, ad aspettare un treno che forse non arriverà mai?»

«Parli troppo svelto per me – mi interruppe – devi parlare più piano. O inglese. Non riesco a starti dietro.»

Rise. Aggrottò le ciglia mentre io fui costretto ad ammettere che non conoscevo abbastanza bene la sua lingua. E al tempo stesso che i capelli biondi e la carnagione chiara e lentigginosa mi mettevano in imbarazzo. La sua bellezza era consapevole, e questa cosa mi ha sempre messo in difficoltà. Come l’inglese. Impararlo era nelle liste delle cose da fare al più presto. Sono un patito di liste di cose da fare. Ogni sera prima di andare a letto stilo un piano di cinque cose da fare il giorno dopo. Pare che funzioni. Almeno con me è così… (continua!)

ps: forse non lo sai, ma ho scritto anche un romanzo. Se vuoi puoi iniziare a leggere Domani no. Le prime 30 pagine te le regalo. 

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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