Certo che mi manchi non son mica una donna, tu con la valigia io con un zaino in spalla, strade separate che sembrano sentieri sogni mattutini che prolungano i pensieri.

Non ho mai capito davvero perché io e Maria ci siamo lasciati. A volte cerco di capirlo ma poi, alla fine, mi rassegno all’evidenza. Lei non faceva altro che pensare a me. Io pure. Un’equazione matematica errata che può portare ad un solo risultato: la fine di una storia. Adesso c’era anche quella maledetta canzone a ricordarmelo. Non passava giorno senza che la sentissi ovunque e, per quanto la cosa non potesse che farmi piacere, mi sentivo prigioniero delle mie stesse parole. E rivedevo l’immagine di Maria con un bel trolley, pronta a prendere una strada, una direzione decisa, per andare in un posto dove sistemare per sempre le sue cose in un armadio e veder fiorire ogni giorno la sua storia d’amore. E poi c’ero io con il mio zaino da viaggiatore errante. Nel senso letterale del termine: pronto ad errare, a fare cazzate in ogni dove. Io che non uso mai gli armadi per paura di sentirmi troppo legato a qualche posto o a qualche persona, sempre pronto a ripartire, con quello zaino in spalla. Avrei dovuto chiamare così la mia canzone, lo zaino e la valigia, e se ci pensate non è un caso che il primo sia un termine maschile e il secondo femminile. E comunque, a modo mio, Maria l’ho amata alla follia. Non posso neanche prendermela con la distanza. Pur di starmi accanto Maria aveva deciso di venire a  fare giurisprudenza a Bologna, facendo arrabbiare i genitori. E pur di non starmi tra le palle aveva scelto di scelto di prendere casa con altre studentesse.

«Credo non sia il caso di andare a convinvere, no? Siamo ancora piccoli…»

In realtà erano i suoi genitori che non volevano ma il suo ragionamento, all’epoca, non faceva una piega e mi mise non poco a mio agio.

«Lo credo anch’io. Tempo al tempo.»

Facemmo i pendolari solo per un anno e in fondo quel primo anno a Bologna, per me, passò in fretta e senza eccessivi traumi da separazione. Tornavo a casa spesso (lo ammetto, al Damnz non è che ci si ammazzasse di lezioni e di esami) e lei quando poteva diceva ai genitori che veniva a trovare la sua amica Raffaella a Modena. Si passeggiava per le vie del Centro, tra piazza Maggiore e via Indipendenza, si facevano giri in bicicletta, si pitturava casa e si faceva l’amore. Un anno dopo ho iniziato a farmi sempre di più i fatti miei, con discrezione, senza farglielo mai pesare, ma con la discreta faccia da cazzo che mi contraddistingue. Finchè una sera, in un pub, Maria mi disse:

«Ernesto – dovevo immaginare il prologo della tragedia, non mi aveva chiamato amore – io potrei farti mille discorsi, tipo che sei cambiato, che negli ultimi tempi pensi solo alla musica e alle tue canzoni…»

Bevvi un sorso deciso di birra scura, non mi aspettavo quelle parole.

«Ma non me la sento di farti pesare la cosa. Magari non hai più voglia di stare con me, tutto qui.»

Ecco, è la freddezza delle donne che uccide, non le loro decisioni.

«Io non credo. Sì insomma, sono preso dal gruppo, dai concerti, ma…»

«Ernesto – seconda mazzata – ti devo ricordare che due giorni fa ti sei addormentato sul divano mentre guardavi la tv e io avevo la testa tra le tue gambe? Neanche la cortesia di accarezzarmi i capelli, non dico di ricambiare il favore. E abbiamo solo venti’anni!»

«Scusa, era stanco.»

«Sei stanco. È diverso Ernè. Molto diverso.»

«E tra l’altro – non aveva finito, Maria quando si arrabbiava diventava un fiume in piena – non fai un cazzo, neanche gli esami. Cosa farai quando tornerai dall’ufficio tra dieci anni?»

Non mi ricordavo di averle mai detto che un giorno avrei voluto lavorare in un ufficio, ma addormentarsi mentre una donna è lì, pronta a regalarti un momento di piacere universalmente riconosciuto, beh, è gravissimo. Rimasi senza parole, un classico del mio repertorio senza chitarra.

«Ernè, lasciamo perdere. È un po’ che ti dico che non mi sembri più preso, ma tu sei un uomo.»

«Grazie per l’uomo.»

«Si insomma, un ragazzo. – Si accese una sigaretta e inspirò il fumo, attenta a non buttarmelo addosso. – Ma non è questo il punto. Neanche io sono una donna, devo crescere, solo che pensavo di poter contare su di te.» Intravidi uno spiraglio favorevole.

«Anche io. Voglio crescere con te.» Ce l’avevo fatta, l’avevo detto.

«Io non più. Ho deciso così.»

La mia storia con Maria è finita in quella maniera, in uno squallido pub di Monterenzio, in provincia di Bologna, nello stesso locale dove qualche decennio prima si erano conosciuti Anna e Marco di Lucio Dalla. A due passi da una città che non era la nostra e che nulla aveva a che vedere con quella che, nel bene e nel male, ci aveva visto innamorare. Infatti pioveva, ma questo particolare lo lascio volentieri agli sceneggiatori. La mia ultima grande colpa fu quella di non aggiungere nulla alle parole di Maria. Diedi un morso al panino prosciutto e cetrioli senza cetrioli e ingurgitai mezzo litro di Guinness senza proferire parola, guardando le altre coppie che ci circondavano. Magari Maria, in cuor suo, sperava che io dicessi qualcosa o che nei giorni a seguire la chiamassi, invece io accettai il verdetto del campo. Un po’ perché non avevo argomenti convincenti per farle cambiare idea, un po’ perché sono sempre stato un codardo e mi faceva paura l’idea di farla sentire felice, serena e appagata. E questo mi stava profondamente sul cazzo. Ma tant’è. Baggio era nato per fare gol meravigliosi, i Doors per suonare una musica universalmente stupenda e io per riuscire a farmi sfuggire una donna prossima alla beatificazione. Non c’è che dire, ci vuole un discreto talento e io l’avevo. Forse ce l’ho ancora. Che poi, dopo quasi sette mesi, pensavo di aver archiviato il discorso Maria. Mica per sempre. Quello è impossibile e io odio la parola per sempre. Ma di aver rinchiuso certi pensieri in una scatola nera, beh, quello sì. E invece, ancora una volta, mannaggia alle canzoni. Ne basta una per gonfiarmi gli occhi e accorciarmi il respiro, riportare in camera lo stesso odore, le stesse smorfie e lo stesso sorriso di tanti mesi fa. A volte credo che l’uomo sia ridicolo quando cerca di sfidare le distanze con gli aerei, con le autostrade o di sfidare il tempo con il cronometro, con l’ADSL o con mezzucci anti-invecchiamento. Tanto, basta una canzone per annullare il tempo e le distanze. Tutto lavoro sprecato.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Un paio di palle. Basta una radio, basta una canzone. Se poi la canzone è pure tua, beh, non puoi fare altro che spegnere tutto e andare a dormire. Se ci riesci.

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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