Avevo 22 anni, mica pochi. Non ero un pischello, iniziavo ad avere anche la mia coscienza (o incoscienza) politica. Ascoltava i Modena City Ramblers e Francesco De Gregori. Li ascolto ancora. Il 17 luglio decisi che sarei andato a Genova, a vedere dove stava andando il mondo. Mi misero in gabbia insieme ad altri ragazzi che avevano l’assurda pretesa della partecipazione e della condivisione di ciò che stava succedendo. Ricordo che feci amicizia con Mario, Stefano, Padre Angelo, tutti violentissimi esponenti della “sinistra radicale”. La chiamavano così allora. Definivano “radicale” tutto quello che non gli andava giù. Si percepiva tensione ma non si sapeva da che parte sarebbe esplosa, la guerra. Il web non c’era, almeno non come lo intendiamo noi oggi, il passaparola era reale e forse, per questo, ci metteva di più a propagarsi ma restava ben saldo nella memoria. Iniziò a diffondersi la voce che degli strani individui vestiti di nero, chiamati black block, stavano mettendo a fuoco e fiamme la città. La Polizia, così dicevano, rispondeva su chi gli capitava a tiro. Eppure era facile riconoscere quelli vestiti di nero, pensavo io. Si rinunciava ad affrontarli come se avessero una qualche arma speciale, e fosse impossibile fermarli. Come con i cattivi dei supereroi, quelli che solo Batman e Superman possono fermare. Donne, bambini, preti e pacifisti invece, si potevano picchiare. Il pomeriggio del 19 luglio mi trovai in mezzo alla guerra.

Bastonate, lacrimogeni, computer e macchine fotografiche fracassate. Eppure io non c’entravo niente. E neanche la gente intorno a me. Non ero andato a Genova per fare la guerra e così quella notte decisi di tornarmene a casa. Dovevo studiare e non volevo sentire nessuno dirmi “Hai visto, cosa ci sei andato a fare a Genova?”. Continuai a seguire il G8 alla TV e il giorno dopo l’accesi verso le sette di pomeriggio. Opinionisti ed esperti di vario genere discutevano sull’accaduto, i TG passavano le immagini di un tizio con un estintore in mano. Ad un certo punto il tizio si accasciava. Colpito, freddato, ucciso. Io non ho mai considerato Carlo Giuliani un eroe, non ce l’ho fatta allora e non ce la faccio adesso. A distanza di dieci anni esprimo tutto il mio cordoglio per la famiglia, per la mamma straordinaria di Carlo, per quello che è successo, ma non sono mai riuscito ad assolverlo appieno. Non sono riuscito neanche a considerarlo mai una vittima. Col volto coperto e l’estintore in mano, non puoi essere un vittima, purtroppo. Spero che Carlo mi capirà.

Però sentivo che sarebbe successo qualcosa, che le forze del disordine avrebbero esasperato la situazione fino a quel punto, che la guerra sarebbe esplosa mentre 8 coglioni decidevano le sorti del mondo al riparo da tutto, tra pranzi luculliani e bunga bunga ante litteram. Quello che accadde il giorno dopo, con l’assalto alla Diaz e la distruzione di massa di tutti i computer fu la conseguenza. Con quell’attacco voluto e premeditato, pensarono di fermare il corso delle cose. Secondo loro bastava distruggere le macchine, ma non si erano resi conto di dove andava il mondo. Che quelle stesse persone, quei ragazzini imberbi, dieci anni dopo, avrebbero continuato a diffondere la vergogna sui social, sul web, su mezzi ancora più potenti di quelli che loro pensavano di aver distrutto.

A distanza di dieci anni mi resta questo: l’orgoglio di dire che a 20 anni non ero un solo un pischello, ma uno dei tanti che aveva ragione. Le cause per le quali ci battevamo erano serie, reali e avrebbero riscosso il loro tributo qualche anno dopo. Ma ci avevano scambiato per visionari, pazzi e violenti. Mia madre benedì la scelta di essere tornato a casa, io mi sentii vigliacco, ma sollevato. Non ero andato a Genova per fare la Guerra. Ero andato per far sentire la mia voce e comunque, quel giorno, decisi che avrei continuato a farla sentire e che non avrei mai smessi di gridare e combattere per i miei ideali. Ma non mi chiedete di morire o di uccidere per loro. Non mi sento ancora pronto.

“Noi buttavamo tutto in aria e c’era un senso di vittoria, come se tenesse conto del coraggio, la storia. (G. Gaber – I reduci)

 

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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