Una sera la vidi in discoteca. Per me lo Snoopy era il più bel posto del mondo. Si ballava in prima serata e, alle due, un bus veniva a prenderci per riportarci a Bari. Quando il Dj attaccava con il ritmo R&B di “Men in Black” di Will Smith i ragazzi del Fermi, del Socrate, del Flacco e del Margherita si sentivano i padroni del mondo. Poi, sulla note di “Primavera” di Marina Rei iniziava la festa, quella vera, quella del sabato mattina ancora a scuola, dell’ora finita e della mente che và. Non sono mai stato un amante delle discoteche ma, a quell’epoca, non potevo chiedere di meglio. “Una settimana intera e oggi lo vedrò” – cantava Marina mentre i miei compagni di classe, più sciolti di me, iniziavano a dimenarsi nelle danze. “Dio come mi manca giuro non lo lascerò” – chissà se Maria aveva mai pensato a me. Era bella quella sera, ma in pochi se ne accorgevano. Preferivano bellezze più appariscenti e volgari, volti noti alle assemblee delle scuole. Non per niente Maria si muoveva nell’ombra, insieme alle sue due solite amiche, attenta a non farsi notare troppo, abbassando lo sguardo davanti alle avances dei ragazzi più in voga di allora. Saprei recitare i loro nomi a memoria, come la formazione di una squadra di calcio.

Scandale, Morgese, Antonacci, Poliseno e De Robertis, per me, erano più famosi di Didì, Vava, Pelè, Garrincha e Zagalo. Erano rappresentati di istituto, pr, regalavano fiches che ti permettevano di bere un gin lemon alla loro salute. Ma Maria non li degnava di uno sguardo. Indossava un tubino nero quella sera, una gonna di organza che lasciava scoperte due gambe lisce e snelle, due caviglie perfette impreziosite da un portafortuna brasiliano là dove, un giorno, ci sarebbe stato un tatuaggio. I capelli ricci si adagiavano su due spalle da uccellino e il suo volto rispettava tutti i canoni della proporzione aurea. In particolare, quella sera, mi soffermai sulle sue sopracciglia perfette, chiasmiche, belle come un disegno eppure veniva voglia di toccarle. Non provavo imbarazzo ad ammettere che mi piaceva, ma non sapevo come dirglielo. Presi coraggio a fine serata, aiutato dal Dj e da un lento.

Saturnino batteva gli accordi con il basso, il mio cuore lo seguiva a ruota. Era “Luna di città d’Agosto” e io dovevo muovermi. Non durava così tanto quella canzone e le mosse giuste dovevi averle studiate prima. Così mi avvicinai a Maria senza pensare a nulla. E non dissi niente. Non ero famoso, non ero un rappresentante di istituto, né un pr, ero quello che la guardava dalla finestra del corridoio e tanto doveva bastarmi. Allungai solo il braccio destro verso di lei, ruotando il palmo della mia mano per chiederle la sua, solo per due minuti, il tempo di un ballo, una canzone e due chiacchiere, se solo ne fossi stato capace. Poi la guardai negli occhi e non fu un grande sforzo quello di riprodurre nella più fedele delle maniere, lo sguardo che ogni giorno la cercava a scuola. Fu in quel momento che mi riconobbe, di certo la luce soffusa non la aiutava, ma i suoi occhi sorrisero nel riconoscere i miei. Ballammo un lento e io stavo attento a non stringerla troppo, un po’ per paura di stropicciare il vestito, un po’ perche avevo timore di sembrare troppo invadente. Il mio cuore batteva forte e sono sicuro che lei se ne accorse. Tanto che ad un certo mi chiese:

«Sei emozionato? Tremi.»

Io provai a fare finta di nulla.

«Volevo parlarti da un po’ ma non ci sono mai riuscito.» – dissi sul ritornello della canzone.

«Ti vedo quando ti affacci sulla mia classe. Mi piace sapere che c’è qualcuno che mi cerca, sempre se lo fai per me.»

«No, cioè… si.» – biascicavo concetti.

La canzone stava per finire e io non mi ero ancora presentato. All’improvviso si accesero le luci della discoteca e non c’era più nessuna musica a giustificare il nostro abbraccio, così fui costretto ad allentare la presa, fino a lasciarle le mani, perdendo il contatto con lei, quel contatto che avevo faticosamente conquistato.

«Mi chiamo Ernesto, tu?.» – sapevo benissimo come si chiamava, sapevo anche che era una bilancia del 12 ottobre e che le piaceva il colore viola, ma feci finta di nulla.

«Io sono Maria. Piacere di conoscerti Ernesto, ci si vede a scuola allora, devo scappare, è venuto a prendermi il padre della mia amica e  stanno aspettando me.»

Non diceva una bugia. Vidi le facce delle sue amiche leggermente contrariate. L’espressione un po’ invidiosa delle ragazze che non sono state invitate a ballare. La seguii con uno sguardo e vidi che nessuna delle due, per invidia era chiaro, le chiedeva chi fossi e cosa le avessi detto. Si limitarono a posarle la giacca, appena ritirata dal guardaroba, tra le mani. L’accompagnai all’uscita ammirandola ancora un po’, non saprei dire, oggi, se quello potesse chiamarsi amore. Eppure so che per certo che Maria si apprestava a diventare molto importante per me nel periodo che passa come un acquazzone primaverile. Sospirai come un bambino che si libera dello zaino pieno di libri tornando a piedi da scuola e mi avviai verso il bus a passo spedito (continua…)

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

One Comment

  1. …semplicemente bellissimo. Ho fatto un tuffo indietro di 12-13 anni,quando tutto quello che mi sembrava importante era strappare un maledetto “si” a mia madre per poter andare anch’io allo snoopy con le mie 2 amiche…per fare che poi?per abbassare lo sguardo ai tentativi (maldestri) d’approccio dei ragazzi……che tenerezza a ripensarci 🙂

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