Ieri notte sono intervenuto a “Tra poco in edicola”, il programma di Stefano Mensurati su Radio1 Rai. È stato un piacevole confronto sul tema degli influencer. Al centro della discussione, ovviamente, Chiara Ferragni e il suo film. Faccio una premessa: non vedrò il film della Ferragni neanche per curiosità, perché il tempo libero preferisco spenderlo in altra maniera; ma attribuire ad una delle migliori imprenditrici italiane la responsabilità della decadenza culturale della società mi sembra profondamente scorretto.
Ho ascoltato telefonate in cui si invitava la Ferragni ad andare a “lavorare”, ma non siamo gli stessi che chiedono ai giovani a crearsi un nuovo lavoro? Di non vivere con l’aspettativa del posto fisso e della pensione? Di essere “creativi”? Ebbene, lei c’è riuscita e adesso è colpevole? Essere invidiosi non è un problema, anche io lo sono della sua vita patinata, ma si può dire con un sorriso e senza ripetere la solita frase: “Non ci ho capito nulla della vita, dovevo fare due foto su Instagram e diventare milionario”. Perché anche io volevo fare la vita di un calciatore, ma non sono capace. Questa è l’unica verità.
C’è un mercato e all’interno di questo mercato lei si è creata un impero. Ci riesce uno su 10.000. Questo è il messaggio che deve arrivare: in primo luogo che diventare “influenti” è difficile, in seconda battuta che pochissimi possono vivere di questo. Solo dire che “basta postare le tette su Instagram” è molto diseducativo: perché si crea una falsa aspettativa. Perché non sarà così, il pubblico non è così scemo, nemmeno quello che segue Gianluca Vacchi (ha solo dei gusti osceni, a mio parere). D’altronde è influente anche Rupi Kaur, che scrive poesie bellissime. È influente, piaccia o meno, Roberto Burioni che parla di medicina. Fare confronti sul tema lascia il tempo che trova: è il pubblico, anche qui, che decide. E per la cronaca stamattina Maria Cafagna mi fa notare che i primi 15 influencer italiani sono tutte donne. Non è che sono semplicemente più brave, creative e visionarie?