Ho sempre odiato le tangenziali. Mi mettevano l’ansia. Me la mettono ancora. Il pensiero di non poter fare inversione a U e non poter cambiare strada quando mi pare mi fa sentire in trappola. Le tangenziali sono le metafore della mia vita. Imparare a capire quando bisogna mettere la freccia e girare con calma dalla parte giusta, evitando di sterzare improvvisamente e fare inversione a cazzo di cane, perché quando la fai rischi di scombussolare la vita di chi ti sta a fianco e vuole fare la sua bella strada dritta. Per andare a casa della nonna di Maria, dovevi prenderla per forza quella cazzo di tangenziale. Uscita Torre a Mare-Noicattaro poi, dopo il passaggio a livello, eri arrivato a destinazione. Maria confidava sempre nella mia puntualità, cominciavamo ad essere più rodati per quanto riguardava gli orari. Anche perché, per evitare di farsi fare troppe domande dai nonni, cercava di farsi trovare fuori, già pronta. Poi entrava nella vecchia Mini-Minor di mia madre e la riempiva di un profumo nuovo, molto simile a quello della primavera, sebbene l’autunno fosse ormai alle porte. Io la baciavo, toccandole i capelli ricci ancora leggermente bagnati e la pelle fresca di doccia e crema per il corpo, poi la guardavo tutta, estasiato. Gli occhi da cerbiatto, le gambe lucide e ancora abbronzate, le tette sempre più sode e adulte. Quelle labbra sulle quali sarei stato tutto il tempo a passarci sopra un dito, dall’alto verso il basso e viceversa, seguendo i percorsi più svariati di una strada così piccola e stretta eppure così bella da esplorare. Per poi finire dolcemente nella sua bocca, prima morsicato, poi succhiato, quando le sue labbra decidevano di aprirsi e concedevano al mio dito indice di entrare e assaggiare nuovi sapori, ancora più afrodisiaci, mentre lei mi guardava e sembrava promettere ancora di più, un giorno. Avevamo deciso di goderci tutto, fino all’ultimo giorno e Maria non sembrava troppo preoccupata del fatto che io dovessi partire.
«Sono stata da sola per tutto questo tempo, posso starci un altro anno.»
«Non mi tradirai, vero?»
«E con chi? Con Claudio Barresi?» Ridemmo. E fu una soddisfazione. Per la prima volta ero io che potevo prendermi gioco del mio ormai ex compagno di banco, quello che mi aveva umiliato per tutta la durata del liceo, chiamandomi ricchione. Una parola che non avevo mai sopportato prima dell’ammissione di mio padre, figurarsi dopo.
«Per quello che ti conosco no, Claudio proprio no. Magari Ciccio…»
«Ciccio non ti farebbe mai una cosa del genere?»
«Che vuol dire che tu ci staresti?»
«Non ho detto questo, Ernia!» rise.
«Rispondi alla mia domanda!» mi feci serio.
«Ehi! Siamo gelosetti.»
Tacqui. Lei mi accarezzo il viso con la mano sinistra, io non potevo fare altro che guardare la strada.
«Lo sai anche tu che Cicco è un bellissimo ragazzo. Oggettivamente. – Fui geloso di lui in quel momento – Ma se proprio vuoi saperlo lo trovo un po’ troppo trasandato. A me piace il ragazzo alternativo, ma non troppo, uno con il suo stile va bene, preferisco un tipo come…»
«Si va beh, ho capito, adesso vuoi leccarmi il culo!» Comunque le credetti.
«…Come Sergio, ecco!» – scoppiò a ridere, poi mi diede un bacio sulla guancia e ancora uno sulla spalla, fino a baciarmi tutto il braccio. Mi piaceva quando scherzava, la trovavo ancora più eccitante. Avevo una gran voglia di fare l’amore con lei. Non l’avevamo ancora fatto. Io non l’avevo fatto mai, e avevo già i miei diciannove anni suonati.
Quando Maria mi mostrò le chiavi di casa dei suoi, a Bari, per poco non sentivo esplodere il cuore.
«Gira a sinistra.» Disse soltanto quello, eravamo dalle parti di casa sua.
«Ma non dovevamo andare a fare l’aperitivo?»
«Offro io.»
Quanto mi piacquero quelle due parole. Offro io. Mi sembrò come se Maria mi stesse aprendo il cuore e le gambe. Sentii un misto di eccitazione, amore e apprensione. Sarei stato in grado di soddisfarla? Avrebbe fatto confronti con qualche suo ex? Non dovevo pensarci, altrimenti avrei fatto un disastro. Parcheggiai in tutta fretta, e la seguii senza dire nulla, per non rovinare quel momento con una frase inopportuna, la mia specialità. Avrei voluto fermare il tempo, chiamare quel segaiolo di Marcello a Bologna e dirgli no, che non se ne faceva più nulla, che io rimanevo a Bari a fare l’amore con la ragazza più bella del mondo. Penso sia questo ciò che ti capita prima di fare l’amore con la persona che ami: pensare che in quel preciso istante tutto il resto non esista più, che ci sia solo lei e quella felicità sia destinata a protrarsi per sempre. Avrei chiamato anche Cicco e magari Claudio Barresi per dirgli che mentre lui passava il tempo a vantarsi delle sue pseudotrombate io stavo per salire a casa di Maria, quella della Quarta E con le tette enormi, quella con la quale non riuscivo a parlare, sì proprio lei. Mi limitai a guardarla mentre infilava le chiavi dell’appartamento di via Angiulli, e mi chiesi chi diamine fosse quel sig. Angiulli. Me la faccio sempre questa domanda inopportuna, anche nei momenti più impensabili. Credo sia una questione di curiosità. E non mi sono mai accontentato della risposta “storico e statista”. Non è statisticamente possibile che metà delle vie della mia città siano dedicate a storici e statisti. Che poi cosa cazzo fa uno statista? Maria saliva le scale, era davanti a me. Io seguivo il movimento di quel culo che presto avrei potuto anche toccare. Una volta arrivati dentro casa Maria mi prese per mano.
«Ti presento casa mia.»
Il salone era pieno di quadri, le tapparelle ancora abbassate. C’era un pianoforte un po’ impolverato e un delizioso angolo bar come quelli che ho sempre sognato di possedere a casa mia. Maria posò la borsa sul divano in pelle bianca e si mise a giocare a fare la barlady.
«Bevi qualcosa?»
Non sapevo se prenderla seriamente o lasciar correre sulla sua proposta. Per non sbagliare mi limitai a imitarla.
«Quello che prendi tu, mi fido.»
Poi mi ricordai che una volta mi aveva detto che era astemia.
«Il pianoforte è accordato?» Le chiesi.
«Non lo so, un tempo lo suonava mio padre ma credo fosse più un vezzo che altro – Maria versò due dita di whisky in due bicchieri, non tanto per non destare il sospetto dei genitori al rientro – perché, sai suonare anche quello?»
«Me la cavo, da piccolo mia madre mi mandava a lezione e io inventavo tutte le scuse per non andare. Nel frattempo qualcosa l’ho imparato.»
Iniziai a suonare, prima riscaldandomi con la solita musichetta Barilla, poi improvvisando sugli spartiti del padre e infine le dedicai With or Without you degli U2 che da quel momento divenne la nostra canzone. Niente di originale insomma, ma quello mi passò per la testa guardandola negli occhi. Maria posò il mio whisky sul pianoforte e mi accarezzò la testa. Credo che in quel momento si innamorò davvero di me. Avrei potuto prenderla e portarla in camera sua, come forse qualcun altro aveva fatto prima di me, invece ero lì a suonare canzoni d’amore. Sorseggiava whisky a fatica, ma ne gustava il sapore.
«Non sei astemia?» Le dissi.
«C’è un tempo per provare ogni cosa. E tu non sei vergine?» Si tolse la maglietta. Mi fece cenno di seguirla… (continua, nel romanzo!!)
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