La città eterna era vestita di gloria e di giallorosso. Le fatiche dell’anno giubilare lasciavano il posto ad un’orda di affreschi in stile kitch che, in larga parte della città, celebravano il recente scudetto della Roma di Capello e Batistuta. Drappi, bandiere, sfottò e murales in stile “Dar petto t’ho scucito lo scudetto” riferiti al fatto che, i tifosi della Roma, non sono festeggiavano un titolo che mancava da quasi vent’anni ma si prendevano anche la soddisfazione di toglierlo ai cugini della Lazio che, a parer loro, avevano avuto il torto di festeggiare troppo poco un anno prima. Questo era, per dovere di cronaca, il contenuto dei botta e risposta ben in vista sui muri della capitale. Mentre attraversavo la città con il bus che conduce dalla stazione Tiburtina alla zona Eur mi interrogavo sulla strana casualità che aveva portato le due squadre di Roma, dopo decenni, a rivincere uno scudetto proprio a cavallo dei due anni del Giubileo. Panem et circensem, sacro e profano. E io mi sentivo pronto a prendermi la mia parte di illusione in quella città meravigliosa. L’ufficio di Brustenghi si trovava al quinto piano, questa volta sapevo tutto, la segretaria era stata gentilissima a darmi tutte le indicazioni del caso. L’ascensore trasparente con vista Eur e l’altezza degli uffici trasmettevano segnali inequivocabili sulla potenza di quell’uomo. Cercai di non pensarci, io ero solo un componente di una Boaband qualunque mentre loro erano la prima casa discografica in Italia. La dottoressa Scortichini mi aspettava nell’atrio lustrato di nuovo. Mi riconobbe subito appena si aprì l’ascensore.
«Celi?» – mi disse senza sorridere guardando la cartelletta dove era segnato il mio nome. Non mi diede neanche il tempo di rispondere, era una domanda di cortesi la sua. Non ebbi il tempo neanche di annuire.
«La faccio accomodare nella stanza Pop, il dottore la raggiunge tra una decina di minuti.» – ringraziai ma anche in questo caso era troppo indaffarata a controllare gli appuntamenti sulla cartelletta. Passai quei dieci minuti, che in realtà diventarono quindici o forse venti a sedermi, alzarmi e studiare il modo in cui mi sarei fatto trovare. Se in piedi con le mani in tasca o piuttosto seduto a scrivere pensieri su un foglio, cosa che faceva tanto “artista” ancorchè fosse studiata a tavolino. Poi mi interrogai sul nome di quelle sale riunioni. Non vedevo di buon occhio il fatto di essere capitato nella stanza Pop, avrei giudicato più adatta la stanza Pop o quella Ragamuffin, ma non potevo certo star lì a sindacare. E, tutto sommato, poteva andarmi peggio con la stanza Latina e con quella Neomelodica. Terminate quelle riflessioni dedicai i restanti minuti alla mia attività preferita: il giramento dei pollici. La portai avanti con ardore e impegno finche non sentii bussare. Il vizio della Wayo era fin da subito evidente: facevano domande per darsi le risposte da soli, bussavano la porta e si davano il permesso per entrare. Brustenghi indossava una camicia aperta che lasciava intravedere il pelo bianco, soffriva il caldo nonostante l’aria condizionata fosse sotto gli standard consentiti dall’UE per le regole sul riscaldamento globale. La pancia enorme che si trascinava dietro non lo aiutava affatto, evidentemente.