Quando ieri mi è stato chiesto se oggi avrei lavorato, ho risposto di no. Perché se proprio devo fare uno sforzo – sebbene io abbia il privilegio e la fortuna (fortuna che in minima parte ho contribuito a costruirmi) di fare un lavoro che amo – lo farò domani o domenica. Questa festa è sacra, al di là delle bandiere dei sindacati, del volto di Che Guevara e di quelli, immancabili, dei quattro mori al concerto di Roma. Lo è perché non dobbiamo mai dimenticarci l’importanza del lavoro.
E prendersi una giornata per riflettere, anche in un momento in cui c’è poco o niente da festeggiare, è cosa buona, giusta e doverosa. Lavorare è un diritto, lavorare è fatica, lavorare è realizzazione. Lavorare nobilita, ma non è il metro di giudizio della dignità altrui. Nella mia vita il lavoro l’ho cercato, l’ho bramato, l’ha desiderato, l’ho raggiunto, l’ho perso, l’ho ritrovato, l’ho riperso malamente, l’ho inventato.
“Il lavoro (l’uomo solo non può non pensare al lavoro) ridiventa l’antico destino che è bello soffrire per poterci pensare“, come scriveva in una delle sue poesie più belle Cesare Pavese.
Credo di aver vissuto, e di vivere ad oggi, un ventaglio abbastanza ampio di ipotesi e anche se ci sarà sempre qualcuno pronto a dire – “eh, ma tu” – mi sento abbastanza sereno nell’esprimere un pensiero. È bellissima una “Repubblica fondata sul lavoro” a patto che insegni il reale peso del lavoro all’interno della società stessa. Che viene dopo la salute, il benessere fisico, quello psicofisico, quello collettivo della comunità tutta. Dopo la dignità personale di chi il lavoro può anche perderlo, semmai, ma non deve sentirsi un fallito per questo. Una società contemporanea – che non si arrovella su pensieri nobilissimi di cento anni fa – insegna fin dalla scuola che essere “impiegabile” è meglio che essere impiegato.
E che poter contare su delle alternative è la misura della nostra dignità, della possibilità di potere dire anche di no. Il lavoro è parte di un processo di realizzazione, non l’unico fattore, altrimenti rischiamo di diventare ottimi lavoratori e pessimi amici, pessimi padri, pessimi fidanzati, pessimi compagni di merende e di discussione. Il lavoro va pagato, sempre. E parlare di soldi non è “vile”, mai. Ma onesto e sincero, perché sennò è meglio impiegare il tempo in altra maniera, ci sono tanti altri modi per nobilitare la propria esistenza. Il lavoro sa fermarsi, quando è giusto. Sa riflettere, sa onorare sé stesso. Passiamo un buon primo maggio e ricordiamoci che siamo noi che “abbiamo tutto da vincere o tutto da perdere” e nessun altro.