Al posto della solita lista (inutile) dei buoni propositi, questa volta vi propongo un decalogo dei 10 pezzi più significativi che ho scritto nel 2017, su diverse testate. Non necessariamente i migliori, ma quelli che, per motivi diversi, mi hanno arricchito di più. Buona lettura.
La passione per il calcio e quella per le biciclette in una chiacchierata con l’autore di “Jack Frusciante”.
Furore e lealtà sono due concetti pregnanti della vita e della letteratura di Enrico Brizzi. Li ritrovi in un libro come Bastogne, nelle gesta sportive degli eroi calcistici raccontati in L’inattesa piega degli eventi o Il meraviglioso giuoco, nei personaggi come Alex e Martino di Jack Frusciante è uscito dal gruppo e ancora nel filone dedicato al ciclismo. Furore e lealtà sono due valori fondamentali del tifo, dello spirito della curva, quella curva del Bologna che Enrico – oggi arrivato a oltre 20 libri pubblicati – difende a e non rinnega. Di furore e lealtà, infine, è il titolo della biografia che ha scritto per Vincenzo Nibali, un campione che «si sorprende ancora quando lo fermano per un autografo».
Enrico Brizzi, palloni e pedali
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Un racconto dedicato a mio padre, scritto per il progetto di storytelling “Dedicato, filiera 100% Puglia”, per Pasta Granoro.
Mio padre era quello che un tempo si soleva definire “una persona di compagnia”. Già, che fine ha fatto questa definizione? Non si usa più, l’hanno sostituita con parole vuote e prive di significato, ma il suo sorriso era qualcosa di unico. Mio padre, quando sorrideva, approvava la vita degli altri.
Era spesso attraversato da un perenne, a volte insensato, buonumore, e una mattina mi disse di preparare la cartella, perché andavamo a prendere il treno. Non avevo idea di cosa mettere in quella cartella, infilai in fretta e furia i colori a spirito, due matite, i fogli Fabriano A4, una mela, il Billy e un libro che se non ricordo male doveva essere “La Storia Infinita”, ma soltanto perché mio padre e mia madre mi avevano trasmesso l’abitudine di portare sempre un libro con me.
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Socializzazione forzata, privacy ridotta al minimo e scarsa concentrazione: forse è arrivato il momento di ripensare all’organizzazione degli uffici.
“Operai con lo zaino in spalla”. È la definizione che le ha dato la futurologa Nicola Millard, esperta di dati, analisi e tecnologie emergenti, per parlare dei lavoratori in relazione al luogo di lavoro. Sono quelli che si porteranno il lavoro sempre dietro, armati di smartphone, tablet, laptop e cavi di tutti i tipi. Quelli abili a trovare l’habitat di lavoro ideale in un coworking, in un treno, o quelli che oggi vengono definiti “coffices”, una via di mezzo tra un bar e un ufficio.
C’è una spiegazione alla radice di questa convinzione ed è nella teoria della stessa Millard, che in un intervento al New Scientist Live di Londra ha ribadito che “gli uffici open space sono un modello che non si adatta a nessuno”. I lavoratori a stretto contatto tra di loro, secondo la futurologa, si bloccano, come se fossero intrappolati in un ascensore.
Ma ci piace davvero lavorare in un open space?
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Storia del post sulla Valle d’Itria diventato virale a sua insaputa
Care e cari social media manager e simili, è ora di aggiornare le vostre slide. Questo che vi offro è uno spunto senza troppe pretese, nemmeno quella di prendersi troppo sul serio, ma che può far riflettere sui concetti di “viralità” e “storytelling“.
Breve ma significativa lezione di Storytelling non prevista
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Umberto Contarello ha sceneggiato La grande bellezza e This Must be the Place, interista, è affascinato dal calcio e dalla difficoltà di riprodurlo sul grande schermo.
Ci fermiamo a parlare di calcio, anzi di “pallone”, Umberto Contarello e io, e non mi sembra vero poterlo fare con un premio Oscar. Con l’uomo che ha firmato alcune splendide sceneggiature, capolavori come This must be the place, La grande bellezza, The Young Pope. Resto assorto, affascinato dai suoi aggettivi, dalle parole che stilla come gocce preziose. Sempre cercate, volute, come nei dialoghi dei film scritti con Sorrentino. «È così triste essere bravi, si rischia di diventare abili», è una delle mie frasi preferite. Lui non si cita, ma approva il tempismo di chi sa farlo al momento opportuno. Perché la bravura e il talento sono temi a lui cari, doti sublimi e pericolose al tempo stesso.
Il talento di non pensare il pallone
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In un’epoca in cui le competenze sono sempre più livellate, è l’amore verso i progetti a fare la differenza
Al diavolo il calendario editoriale: il pezzo sul lavorare per amore sarebbe dovuto uscire ieri, festa degli innamorati. Invece ho trovato il tempo per scriverlo oggi, giorno della festa dei cornuti. Magari è un segnale, penso che mi farò un paio di domande. E sì, perché ad amare troppo il proprio mestiere si finisce, certe volte, per prendere sonore batoste, perché si vive il tutto in maniera molto meno distaccata, ma l’amore è così, prendere o lasciare. E noi (sì, parlo proprio a te) siamo gente di sentimento. Il calendario mi fa un brutto scherzo e mi ricorda che proprio un anno fa lasciavo il mio lavoro, e quindi il mio stipendio, da dipendente per dedicarmi alla libera professione. Sui pro e sui contro ho già scritto un pezzo qualche settimana fa, per cui non ci torno. È bene, invece, tornare sul tema dell’amore.
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Pezzo di storytelling dedicato a Castelluccio di Norcia, per il progetto #RinascitaCastelluccio (featuring Perugina)
Da piccolo non mangiavo lenticchie. Il motivo è molto semplice: ero un figlio viziato che concedeva poche eccezioni alle proprie regole, e poiché avevo deliberatamente deciso che i legumi non mi piacevano, scelsi di venire incontro ai miei genitori dichiarando che sarei stato disposto ad accettare i ceci. E nient’altro.
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Sei firme indagano, tra passato e futuro, sul significato di un’estate mondiale senza Italia, e sulle sue ripercussioni emotive, più che sportive.
Se oggi ricordo nitidamente cosa accadde il giorno in cui ho baciato per la prima volta una ragazza, lo devo a Roberto Baggio e a Beppe Signori. Ci sono loro, in un piccolo televisore Grundig di inizio anni ’80, che si abbracciano, inginocchiati sull’erba di Boston. Mondiali 1994. «Vieni qua Bepi», dice Roberto dopo aver saltato Zubizzarreta e aver mandato mandato in estasi noi ragazzini. Poi il mio sguardo che incrocia il suo. Farei fatica a ricordare l’anno, ma per fortuna le estati non sono tutte uguali. Ci sono quelle vuote degli anni dispari, e poi, per fortuna, quelle dei Mondiali. Come le notti del 1990, con mia madre che preparava la focaccia col sale grosso e mio padre che invitava i suoi amici, autorevoli dissertatori di pallone ai miei occhi, a casa. Io, al mio primo grande appuntamento sportivo, ho dieci anni e un quadernetto in cui colleziono ritagli di giornale e i risultati delle squadre divise per girone. Mia madre ha uno sguardo amorevole, mi ricorda quando battevo i coperchi delle pentole nel 1982. Ma avevo solo 3 anni e non mi fregio di aver vinto quel Mondiale. Ho dato l’orale della maturità il giorno dopo Francia-Italia del 1998.
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Un racconto sull’importanza della pausa e dell’intervallo (progetto promosso dal brand Euro Company)
Correvo per arrivare in tempo al suono della campanella, a scuola. Corro ancora per prendere il tram o per non perdere la metro, come se ogni treno fosse un’occasione irripetibile. Sono cresciuto con questa assurda concezione che i treni non ripassano più, deve essere stata colpa della mia formazione cinematografica. Invece nella realtà ogni volta che vado in stazione mi accorgo che i treni non solo ripassano, ma sono persino banali, ripetitivi, frequenti. E partono ogni giorno alla stessa ora, a volte persino sullo stesso binario, arrivando sempre negli stessi posti. Per cui credo proprio che stavolta posso fermarmi, senza dover rendere conto a nessuno.
La mia pausa ha il sapore di un’estate a mare. E sembra scontato, eppure negli ultimi anni ero sempre andato in giro per il mondo, varcando l’oceano e ritrovandomi puntualmente ad affrontare un nuovo inverno. L’inverno più freddo della mia vita è stata un’estate a San Francisco, diceva Mark Twain. Ma quanto erano dolci certi inverni, vissuti a cuor leggero e senza dolori. Questa estate, invece, ha di nuovo l’odore vintage dell’abbronzante al cocco, ricorda l’asfalto bollente e le urla dei bambini che giocano a pallone sul bagnasciuga. Quanto mi è mancato quel rumore.
Piccolo intervallo di felicità
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Local SEO e Local Storytelling: come cambia il marketing sul territorio
Produrre semplici contenuti e diffonderli online con un blog o attraverso i canali social non significa fare content marketing, né tanto meno storytelling. Possiamo parlare di marketing dei contenuti quando ogni elemento utilizzato (testi, immagini, video) prende forma in funzione di obiettivi precisi e rispetta linee guida che sono il frutto di un’analisi. Facile dedurre che per fare marketing a livello locale questa strategia diventa ancora più serrata, legata ad abitudini, modi di dire, cultura del luogo, conoscenza. Non si tratta quindi di “scrivere bene”, ma di produrre quei contenuti che ci aiuteranno a raggiungere l’obiettivo desiderato.
Il mercato è liquido, i consumatori sono abituati molto più dei brand e delle aziende a muoversi tra molteplici canali digitali e piattaforme differenti. Il marketing multi-canale consiste nell’elaborare una strategia capace di muoversi attraverso piú media con una logica integrata e coordinata, un accorto presidio di tutti i canali in cui sono presenti i propri clienti, un maggiore supporto verso i media prescelti dal proprio target, un’interazione più frequente e calibrata nelle modalità in cui gli utenti sono più a loro agio.
Local Marketing, come si crea una strategia locale
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Bonus track
Elogio di un’estate –> Nodini di mozzarella summer
Leggere aiuta a scrivere –> La missione dell’autore
Il mio amore per Youri Djorkaeff –> Vent’anni fa è una frase a colori
Cambiano le regole, cambiano i difensori –> Le regole della difesa
La passione “brucia” –> Tifosi e professionisti ai tempi dei social