Non ricordo esattamente perché andammo a Roma, il 22 novembre del 2009. Però andammo, in tanti, tantissimi. Successe così, per caso, come succedono tutte le cose più belle. Ci muovemmo in 12.000, o forse più. Non c’era una coppa in palio, né un titolo da conquistare (e quando mai), non era una partita decisiva per la salvezza, e nemmeno per l’Europa. Quell’Europa che avrebbe dovuto vederci entrare dalla porta principale, secondo il presidente.

La Capitale come destinazione. D’altronde tutte le strade portano a Roma. Quelle di chi vive a Bari. Quelle di chi lavora proprio all’ombra del Cupolone, o di chi può prendere un treno e arrivare da Milano, Torino, Napoli, Bologna. Noi baresi viviamo dappertutto. Portiamo focacce e tielle di patate, riso e cozze in giro per l’Italia. Conserve di melanzane sott’olio e Peroni Gran Riserva. Figurarsi se ci fa paura qualche ora di treno.

Il Bari gioca bene, divinamente. È la squadra della libidine, quella che corre finché ce n’è, aggredisce gli spazi e allarga il gioco coinvolgendo anche il portiere, Gillet, nello sviluppo dell’azione. Il Bari diverte e da queste parti, credetemi, il divertimento è cosa rara. Abituati a pane e catenaccio, Materazzi e Fascetti, ad uno sgangherato carnevale di stagioni, assistiamo finalmente allo show di una squadra che impone il proprio gioco ovunque. A San Siro, al San Paolo, all’Olimpico.

Adoro le trasferte in treno. Ricordo ancora la prima da Bari a Lucca. Da Jesi, dove vivo, ci vogliono meno di tre ore. Incontro ragazzi di Filottrano, Ancona, Pesaro, Spoleto. Tutti con una sciarpa al collo. Sono di Bari anche loro. Ma che ci fai tu a Spoleto? E tu, piuttosto? Ma dov’è Jesi? A Roma ci accoglie una giornata di sole, un vento favorevole e tanta passione. Si scherza, si mangia, si canta a squarciagola. Il bello del calcio. Nessuno odia nessuno, si fa festa punto e basta. C’è chi ritrova un vecchio amico, chi un compagno di classe che si è sposato e vive a Pescara, chi il bello della scuola che oggi non ha più i capelli e fa l’ingegnere a Torino.

Si ritorna a parlare in dialetto perché sì, quella curva, per un paio d’ore, diventa casa nostra. Ventura osserva i suoi nel riscaldamento. Ringrazia i tifosi con il braccio destro ma si porta la mano sinistra sotto il mento, come a voler pensare. Scuote leggermente la testa, i ragazzi non sembrano concentrati. Lui che li vuole sempre sul pezzo, famelici. Iniziamo a cantare. Gireremo lo stivale per cantare Bari Alè. Mi giro, mi guardo intorno, chi altro ci sarà da queste parti? Intravedo facce note, vorrei abbracciare tutti, anche quello che mi aveva fottuto la ragazza,10 anni prima.

La partita scorre, ma lo spettacolo è tutto in curva nord. Bandiere, sciarpate, pacche sulla spalle. La sensazione di stare a casa nonostante la distanza. Anche se domani si andrà a lavorare e mi sforzerò di parlare con la cadenza giusta, senza vocali aperte. E so già che non ci riuscirò. Mi innamoro di quell’accostamento di colori, il bianco e il rosso, una volta di più. Totti ci fa tre gol in mezz’ora, Ventura scuote la testa e ci guarda, sì guarda proprio noi in curva, ma nessuno si sogna di smettere di cantare. Il Mister allarga le braccia, come a dire “Se non gliene frega niente nemmeno a questi, io che sono venuto a fare qui“. La libidine, per un giorno, è sugli spalti. Resterà nel cuore l’eco di quei cori. Di una giornata troppo bella per potersi ricordare di una sconfitta.

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Foto da lamiaroma.it: nel derby di qualche domenica dopo i tifosi della Roma dedicarono ai sostenitori laziali questo striscione ironizzando sul fatto che i baresi, nella partita precedente, sembravano (forse erano) molti di più. 

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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