Ecco l’incipit del mio prossimo romanzo. Parla di musica, di attualtià, di amicizia e di compromessi. Della mia città, Bari, e di tante altre cose. E di amore non parli? Amore un cazzo.
C’è chi si fotte per colpa delle donne. Chi per il vizio del gioco. Altri lo fanno perché bevono o per andare dietro ad una qualche sostanza stupefacente. Io sono un caso a parte. Mi ha sempre fottuto l’orgoglio, fin da quando ero bambino. Maledetto orgoglio, non mi sono mai piegato alla volontà di chicchessia. Un professore, un prete, un produttore, un discografico. Nulla. Fanculo. Ci morirò di orgoglio, lo sento. Verrà la polizia a casa, a verificare le cause del mio decesso e sul rapporto scriverà: “Ucciso del suo stesso orgoglio”. Soltanto che quella volta la combinai proprio grossa e adesso sono qui a raccontarvi la storia del mio ritorno. Alla mia vita, alla mediocrità, all’anonimato. Alla mia città, Bari. Quel posto da dove sono scappato, prima per necessità, poi per studiare, diventare un cantante famoso dal nome di merda, e infine per arrangiarmi in un giornale di musica. Alti e bassi, addii e ritorni. Ma non è stata tutta colpa mia, lo giuro. Mi hanno imposto quel tremendo “nome d’arte”, che poi di arte non ha davvero un cazzo. Dicevano che era appeal. Che poi che cazzo vorrà dire appeal. Io ho accettato, mio malgrado, perché una volta nella vita l’orgoglio lo devi pur mettere da parte porca puttana, e sono diventato quello che la gente pensa che io sia: Boavida. Un nome di merda lo so, ma non avevo molta scelta. Accettare o pedalare diceva sempre Brustenghi, il mio produttore. In cambio di questo compromesso sono stato al Festivalbar, a Sanremo, ho pubblicato un album e mi hanno persino proposto di andare in tournèe nei Balcani. Naturalmente ci sono andato. Bravi, avete capito, sono proprio io. L’autore di “Ossessione onirica”, quella maledetta canzone che non riesco a scucirmi di dosso. Quella canzone che tutti canticchiano quando mi vedono o quando sentono parlare di me. Ossessione onirica ribelle, che ritorni nelle notti insonni, immagine sbiadita di un amore folle, foto accatastata in un cassetto di quisquiglie. Vi giuro che ho scritto anche altre canzoni, ma sembra che la gente conosca solo quella, almeno in Italia. Non la canterò mai più. Fatto sta che adesso, vi dicevo, me ne sto tornando a casa, una volta per tutte. Perché in fondo non ne posso più di questa filastrocca stupida e della mia vita da burattino. Ho mandato a cagare Brustenghi e tutti i suoi non-progetti su di me. Se devo continuare a cantare voglio essere me stesso e fare la musica che dico io. E infatti ha stracciato il contratto che mi legava alla Wayo, una delle più importanti case discografiche del paese. Certo, ci si è messo di mezzo anche Andrea Ceravolo, una delle firme più importanti del panorama musicale italiano. Poteva risparmiarselo quell’editoriale sulla mia tournee.
“Sarebbe cosa buona e giusta per la musica italiana che questo ragazzo evitasse di tornare in questa redazione a fare il critico (di gente assolutamente meno capace di lui) per meno di 800 euro al mese. Soprattutto sarebbe bello se trovasse la forza e la determinazione, e questa mancanza è ancora un punto di debolezza per lui, per imporre un proprio stile e non accettare i compromessi. La Wayo mi perdoni, non ho la pretesa di insegnare niente a nessuno. Ma sarebbe un peccato perdere un talento così per la smania di lanciare una nuova canzonetta per la prossima estate.”
Parole come macigni. Impossibile pensare che Brustenghi potesse prenderla bene, in quel contesto. Lui che era abituato a non accettare neanche i consigli della madre.
«Ora io non mi incazzo con questo signore che deve vendere mille copie del suo giornaletto di merda. Ma vorrei spiegazioni da te su quello che hai fatto in quel posto dimenticato da Dio, sapendo che non potevamo controllarti. Sappi che stiamo prendendo seri provvedimenti.»
«Ma io…»
«Ma io un cazzo.»
«Dovevi cantare una canzonetta e fare qualche pezzo dell’album. Cosa ti sei messo in testa? Chi cazzo ti ha detto di provare nuovi pezzi e addirittura chiamare i tuoi amichetti in soccorso?»
«Veramente uno l’ho trovato già lì…»
«Boavida non ci hai capito un cazzo. Io ti mando a fare un tour nei Balcani e tu ti monti la testa. La mia musica, la mia musica, eccola la tua musica – stracciò il contratto e lo fece in mille pezzi – Hai chiuso, non sei mai stato nessuno, quelli dell’ambiente ti prendono tutti per il culo.»
In verità il nostro dialogo fu stato molto più colorito, per usare un eufemismo. Ma datemi il tempo di raccontarvi questa storia. L’autostrada sembrava infinita e tortuosa, mai come quel giorno, con la macchina carica di valige, il telefono muto e il mare a sinistra. E mi pesava quel mare a sinistra, perché non era un’immagine trionfante. Non era un ritorno, non era un’impresa, non era quello che avevo sognato per me. Un ritorno, un triste epilogo, e basta. Dopo aver seminato tanto vento mi apprestavo a raccogliere la tempesta che meritavo.
1 Comments —