Le storie gioiscono quando sono consumate. Ma attenzione a come lo fate. Non sono gratis (Andrea Fontana, Storytelling d’impresa. La guida definitiva, Hoepli 2016).
Quanto è faticoso costruire delle storie, e quanto bisogna investire, studiare e praticare per costruire narrazioni avvincenti ed emozionanti. Si chiama “capitale narrativo” ed è la cifra da investire per generare attenzione
Andrea Fontana: è il più rilevante esperto di Corporate Storytelling nel nostro Paese. Amministratore delegato del Gruppo Storyfactory, ha una lunga esperienza nel mondo della direzione e advisoring d’impresa e della consulenza politica. Lavora con grandi aziende e con diverse Istituzioni pubbliche e private per perfezionare i “racconti” dei loro brand, prodotti o servizi. Insegna “Storytelling e narrazione d’impresa” all’Università degli Studi di Pavia e al Master Executive in Corporate Storytelling all’Università IULM. È presidente dell’Osservatorio Storytelling di Pavia e autore di numerosi testi sulle nuove modalità di comunicazione aziendale e politica con approccio narrativo (Tra le sue recenti pubblicazioni: Manuale di Storytelling, Etas-Rizzoli, Story-selling, Etas-Rizzoli, Siamo tutti Storyteller. Dalla fiction americana alla politica, Giulio Perrone Editore).
L’abbiamo intervistato perché se da un lato lo Storytelling è sempre più una moda, dall’altro c’è sempre il rischio che questa tecnica (che implica un know how e delle skills molto professionali) venga svenduta da chi non ha la minima idea di cosa voglia dire “Storytelling”. Nessuno meglio di lui può fare chiarezza sulla dimensione narrativa da sostenere. Sulle tecniche, i processi e gli strumenti dello Storytelling individuale e organizzativo:
Ed è qui che nasce paradosso: tutti devono fare Storytelling, ma non tutti possono o riescono a farlo
“Se si fa storytelling – attacca Andrea Fontana – bisogna organizzarsi, bisogna avere delle competenze specifiche, che si possono o coltivare “in casa”, in azienda, oppure prendere sul mercato. Inoltre bisogna avere il coraggio di costruire un mondo narrativo che poi si va a sostenere. Quindi, chiunque non abbia voglia di organizzarsi, non abbia voglia di mettere in campo risorse e soprattutto non abbia poi voglia di essere coerente con il mondo che ha creato, è meglio che non faccia Storytelling”.
“Il problema”, però, – sostiene Andrea – “è che noi viviamo in una dimensione sociale narrativa, per cui le aziende, le Istituzioni, i gruppi, sono costretti a raccontarsi. Perché il racconto, come dinamica, è diventato una meta-piattaforma comunicazionale: viviamo in un tempo narrativo e il racconto è diventato un modello di comunicazione, un paradigma. Chiunque, oggi, è chiamato a sapersi raccontare. Ed è qui che nasce paradosso: tutti devono fare Storytelling, ma non tutti possono o riescono a farlo. Proprio perché non tutti riescono ad organizzarsi, non tutti hanno il tempo o la voglia di trovare le risorse o, come dicevamo, non tutti hanno la volontà di prendere una posizione e costruire un mondo da portare avanti, un mondo narrativo.
Tutte motivazioni comprensibili, queste. Ma allora è meglio non farlo, altrimenti si sarà condannati a fare storie in una dimensione di ipocontenuto: i racconti si sgonfiano, perdono di potere, perdono di interesse, perdono il loro significato profondo. Perdono di efficacia. Lo scopo di fare Storytelling, invece, è quello di creare aziende ipercontenutistiche”.
Nel libro di Andrea – Storytelling d’impresa. La guida definitiva (Hoepli, 2016) – c’è un interessantissimo “Manifesto finale”, contenente le 10 quasi-verità delle storie. Tutte importanti, ma alcune sono più significative di altre. L’autore ce le spiega così:
le storie sono furbe, non si ammalano di noia se non le trovate. Vanno da altri.
“Dal mio punto di vista sono ovviamente tutte significative. Forse quelle alle quali sono più affezionato sono due. La prima è questa: “le storie sono furbe, non si ammalano di noia se non le trovate. Vanno da altri”. Questo implica il fatto che dobbiamo essere sempre molto attenti al racconto sociale e alle tematiche rilevanti nella nostra società, attraverso cui poi i racconti si incarnano. È una sorta di monito ad essere consapevoli di ciò che ci sta intorno. Personalmente cerco sempre di essere abbastanza attento a quello che viene raccontato in radio, in tv, sui giornali, online: cerco di vedere quali sono i grandi temi che le storie portano con loro nel nostro momento storico. La seconda quasi-verità alla quale tengo particolarmente è quella secondo la quale “Le storie gioiscono quando sono consumate. Ma attenzione a come lo fate. Non sono gratis“.
La ritengo importante per due motivi: innanzitutto perché mi ricorda quanto è faticoso costruirle, e quindi quanto bisogna investire, studiare e praticare per costruire narrazioni avvincenti ed emozionanti. E poi perché mi ricorda che nel momento in cui qualcuno mi chiede di essere aiutato a costruire narrazioni efficaci – indipendentemente dal fatto che questo qualcuno sia un marchio, un prodotto, una persona – io sto dando un grande valore, un valore che possiamo definire “capitale narrativo”. Dunque lui, lei o loro devono essere disposti ad investire altrettanto tempo, risorse, denaro, al fine di poter sviluppare quel capitale narrativo stesso.
Dal mio punto di vista le storie devono avere una funzione sociale, perché altrimenti sono solo solipsismo, un parlarsi addosso senza nessuna motivazione o senza nessun significato. Le narrazioni o le storie, quindi, devono sempre avere un risvolto sociale”.
Il discorso si fa appassionato quando iniziamo a parlare con Andrea delle competenze dello Storyteller:
“Dobbiamo chiederci di fronte a che Storyteller ci troviamo: samo di fronte a uno Storyteller strategico? Uno Storyteller di contenuti? Siamo di fronte a un Visual Storyteller, o a un Media Storyteller? O media-narrative designer? Perché in realtà, se si vuole fare storytelling in modo professionale per le organizzazioni, c’è bisogno di gruppi di lavoro, con queste competenze evolute messe insieme. Ogni professionista dovrebbe scegliere che tipo di Storyteller essere, diventare bravo in una delle diverse aree e poi, invece, ricercare in altre figure le restanti competenze che gli possono servire per creare una narrazione a 360 gradi. Queste competenze si possono suddividere in 4 macro-aree di abilità che sono: la strategia con la quale si costruisce un racconto, la capacità di costruire i contenuti, la costruzione degli immaginari anche visivi, e poi la competenza dell’adattamento del design narrativo sui media. Oggi siamo tutti Storyteller perché tutti siamo chiamati a raccontarci, ma solo pochi hanno le competenze narrative giuste per farlo. Quindi bisogna coltivare le competenze narrative, bisogna formarsi.
Bisogna saper decidere dove fare Storytelling: se farlo e applicarlo in un’organizzazione, se farlo e applicarlo su un individuo o se farlo e applicarlo su un gruppo di lavoro, che sono tre dimensioni diverse per le possibilità che abbiamo di raccontarci. Oggi lo Storytelling ha una dimensione individuale, perché sono gli individui che possono raccontarsi, una dimensione di team, una dimensione sociologica, perché possono essere organizzazioni che si raccontano, e una dimensione giuridica, perché possono essere le aziende a raccontarsi. Individuo, organizzazione, azienda, sono tre livelli in cui oggi lo storytelling può essere declinato”.
Un racconto insomma espande il nostro capitale narrativo, emoziona gli altri, erode quote di attenzione ai competitor, ci difende dalle guerre simboliche e invoglia i nostri interlocutori a conoscere, capire e persino amare la nostra storia partecipandovi.
Oggi le storie sono cose molto serie. I racconti ancora di più.