Avevo più o meno 20 anni quando Jovanotti, Ligabue e Pelù cantavano “Il mio nome è mai più”. Parlavano di aerei, di bombe, e di gente che si arruolava in aviazione per girare il mondo. Ad un certo punto del ritornello dicevano “Io non le lancio più le vostre sante bombe“. Avevo i dreadlock, il pizzetto e indossavo Dr. Martens verdi sulle quali avevo scritto, con un Uniposca bianco, “Non fossi mai N.A.T.O” omaggiando un muro del corridoio dell’Ateneo, Facoltà di Lettere e Filosofia. Ma la guerra, per me, non era solo quella che cantavano Lorenzo, Luciano e Piero. Una mattina del 1991 mio padre mi svegliò prima del solito, aprendo la tapparella, per dirmi che era cominciata la Guerra del Golfo. In TV vedevo sabbia, bombe che esplodevano qua e là, un conduttore (Emilio Fede) che, chissà perché, sorrideva sempre e un simpatico colonnello di cui Striscia La Notizia riproponeva la caricatura.

Forse è un ricordo sbiadito, ma di quel racconto televisivo ricordo immagini di radar nella notte, soldati americani sicuri di sé stessi e rumori di missili che fendevano il cielo. Poco sangue, e in ogni caso ben nascosto. Così come era nascosto, sapientemente, nei racconti dei miei nonni che raccontavano la loro Guerra come un’esperienza inevitabile, per certi versi addirittura formativa. Forse è vero che aver visto la morte da vicino ti aiuta considerare in maniera più concreta e saggia la vita, ma io avrei voluto evitare comunque. La guerra mi metteva paura, avevo l’ansia che prima o poi ne sarebbe scoppiata una e ogni tanto mi mettevo inspiegabilmente a piangere, nella notte. Mia madre voleva portarmi da un dottore, ma io avevo solo paura della guerra. Avevo 7 anni e chiedevo a mia madre di rassicurarmi che non ci sarebbe stata mai più.

Loro, che vedevano solo una parte di mondo in TV, mi dicevano che ormai non c’era motivo per farne una. Ignoravano quello che stava accadendo dall’altra parte. In fondo, nei TG di Emilio Fede era tutto buio. Le bombe cadevano chissà dove, mica ammazzavano le persone. E poi l’avevano voluta quei cattivoni degli iraqeni la guerra. Mica si poteva lasciare libero Saddam Hussein. Poi un pomeriggio di settembre sono crollate le due torri, mentre io venivo lasciato da una ragazza. Egoisticamente ho pensato che fosse un segno del destino. E ormai non avevo più paura delle guerre, perché ero entrato in quell’età in cui si pensa a sé stessi e si mettono da parte sani principi come quello di lottare per la salvezza del mondo.

Stamattina mi è venuto a trovare un bambino. Mi ha chiesto se adesso avevo paura della guerra. Una guerra senza armi, senza nemici, senza radar. Una guerra che alimenta sospetti, intolleranza, violenza che genera altre violenze, fisiche e verbali. Poi è passato un ragazzino di 20 anni a dirmi se mi ricordavo questi versi “C’era una volta la mia vita, c’era una volta la mia casa, c’era una volta e voglio che sia ancora“. Ho sorriso, ed ho pensato a tutti quelli che non hanno mai conosciuto il significato della parola “casa“. È passato un adolescente brufoloso di quindici anni, dicendomi che il suo sogno era girare l’Europa con uno zaino sulle spalle. Alla fine è arrivato un signore anziano. Se solo ricordassi mio nonno potrei dire che gli assomigliava. Mi ha chiesto quando, precisamente, avevo smesso di avere paura, e perché.

Gli ho risposto “Quando ho smesso di credere che avrei lottato per la salvezza del mondo“. Non mi ha ascoltato, è andato via senza degnarmi di uno sguardo. Mi sono girato a cercare gli occhi delle persone intorno, ma avevano tutti con la testa bassa sullo smartphone. Ho provato vergogna a non avere paura. Adesso che la guerra non è poi così lontana, adesso che la guerra è arrivata e tutti questi fantasmi mi hanno lasciato solo.

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

One Comment

  1. Ho i tuoi stessi ricordi delle stesse guerre, viste dal monitor della TV, in casa. Guerre che sembravano tanto lontane e tanto “semplici” da comprendere, come quelle che eravamo abituati a studiare sui banchi di scuola. E forse per questo motivo apparivano al contempo astratte e spaventose, si mescolavano all’immaginario di persone armate alla meno peggio e buttate nella mischia tra quello che rimaneva dei propri alleati o dei nemici, in modo brutale e primitivo, come è il succo della guerra.
    Ricordo le due torri che crollano poco prima della sessione autunnale degli esami universitari, TV accesa prima di recarmi al lavoro, senza sapere che quello sarebbe stato l’ultimo giorno di lavoro per me per molti, troppi mesi. Ricordo il primo pensiero “sti cavolo di filmacci americani catastrofici”. Ricordo di aver cambiato canale una volta, e una ancora. Ricordo di aver capito che non si trattava di un film. Quelle sagome che stavano precipitando nel vuoto non erano effetti speciali, gli edifici erano avvolti da fiamme reali. Era vero, era vicino. Sarebbe potuto accadere ovunque, anche nella mia piccola, amata e statica Macerata.
    Credo, voglio credere e sperare, che la nostra generazione non sia priva della paura della guerra e delle atrocità che stanno accadendo. Credo che la nostra sia una sorta di incoscienza legata all’abitudine visiva di certe immagini. Come le due torri che crollano, scambiate per un film qualsiasi dove arriva l’eroe di turno che fino a cinque minuti prima vendeva hot-dog all’angolo della strada e di punto in bianco salva il mondo.
    Forse si tratta anche di presa di coscienza, o rassegnazione, lo sappiamo benissimo che un attentato è difficilmente prevedibile. Sappiamo che non verrà nessun super eroe a salvare il mondo.

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