Un momento. L’apice di una storia, un climax, le due righe da leggere e rileggere. Se potessi fermare il tempo e rivivere un minuto preciso di questi ultimi anni sceglierei le nove e cinquanta di quel 30 maggio. Lo stadio stracolmo, le facce tese, deluse, rassegnate. L’attenzione rivolta verso la radio, ad altre partite inutili. E sì, inutili perché tanto noi siamo sotto, in casa, contro il Novara. La difesa ha sbandato e Gonzales ne ha approfittato per portare in vantaggio gli ospiti. In un silenzio talmente irreale da farmi pensare “Ok, adesso lo annullano“. Perché tanto non è possibile assegnare quel gol in mezzo a 50.000 persone che sono lì per il motivo opposto.

Ma tanto è la storia del Bari, arrivi lì ad un passo dal sogno, te lo fanno pregustare e poi. E poi. Svanito di colpo. Però non quella sera. Siamo aggrappati alla voglia di dimostrare al mondo intero che esistiamo. Niente di più. Non è la serie A che ci interessa; quella semmai è una dolce e meravigliosa conseguenza. Ora ci interessa avere un motivo in più per stare ancora tutti insieme, indossare una sciarpa, i jeans da stadio e la vecchia maglia di Pedone. Mi serve una partita ancora per fare un altro week end a casa di mia madre e tornare nella stanza del bambino che non sono più e soprattuto servono due gol, non c’è un’altra soluzione. Lo so io, la sa Marco, lo sa Gianluca, lo sa persino Giulia che ci guarda con la faccia di chi è capitata lì per sbaglio, ma nemmeno poi tanto. Ha capito che è una notte speciale e, state certi, non la dimenticherà mai.

Io non dimenticherò mai quel momento. Un pallone che arriva da destra. Un cross alto, fendente, diretto in un punto imprecisato dell’area di rigore. Direzione speranza. Adesso il portiere esce e abbranca in presa penso, come si diceva un tempo. Questo, almeno, è il film che ho immaginato. Perché in realtà lui, Kosicky, resta tra i pali. Con la coda dell’occhio vede arrivare un treno. Un giocatore alto e possente, che in quel momento sembra ancora più grosso di quel che è. Si chiama Edgar Junior Çani, è nato a Tirana nel 1989 e ha fame. Ne aveva ancora di più nel 1991 quando arrivò a Bari con i genitori che scelsero la Puglia nella speranza di regalare un futuro al proprio bambino. Scelta obbligata, bisognava scappare da un paese in guerra e l’America era di fronte. Chissà se Edgar si ricorda di quella nave, di quello sbarco, dei primi calci dati ad un pallone. Fatto sta che sul pallone ci arriva lui. Prima del difensore, prima del portiere, prima degli stesi compagni. Lui ha più fame. E la mette là, all’incrocio.

Poi non ricordo più nulla. Solo uno stadio in delirio, un tripudio di abbracci, la consapevolezza che per andare ai play off serve un altro gol. E poi l’altro gol, sempre di Çani, in scivolata. Ma l’esultanza del sorpasso è ancora figlia di quella del primo gol. Siamo ebbri, ubriachi di gioia. Siamo ai play off, ma sopratutto siamo vivi. E non importa se in serie A non ci andremo. Questo momento rimarrà per sempre nella nostra mente. Più di una promozione, più di molte altre cose. Marco mi abbraccia, Gianluca si commuove, Giulia si fa accarezzare la testa. Accade tutto in un minuto, il più lungo della storia del Bari. E forse anche della mia. Mille di questi minuti ancora.

ps: venerdì 19 alle 18.30 alla Fiera del Levante presentiamo Che Storia La Bari con la collaborazione di Gelsorosso e alcuni esponenti della FC Bari. Fine dello spot, non mancate. 
 
 

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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