Ti sei perso le prime 3 puntate? La terza è qui.

Ma mio padre tossiva ogni notte, e non gli bastava una passeggiata sul lungomare Vittorio Emanuele II la domenica. Nel giro di 20 anni moriremo tutti, diceva. E la gente gli rideva in faccia, dicendo che nello stesso arco di tempo avremmo fottuto a Bari il capoluogo di regione e Taranto sarebbe diventata la città più importante del Sud, proprio grazie a quella fabbrica. Anzi, che avremmo fatto un culo così pure al Nord. Ma quando nacqui io, una sera, prese mia madre e gli disse che a Fabriano c’era un certo Vittorio Merloni che zitto zitto stava aiutando il padre Aristide a portare avanti una bella fabbrica di lavatrici e cercava operai. E che c’era pure qualche possibilità per le femmine. Partirono. Con il famoso rapido Taranto – Ancona, quello della canzone di Rino Gaetano, Mio fratello è figlio unico. E quella, per loro, resta la più grande rivoluzione. La ribellione estrema. L’atto di coraggio decisivo della loro vita e della mia. Niente lungomare per me, ma entroterra. Il verde in luogo dell’azzurro, e tutto ciò che ne consegue, nel bene e nel male. Ecco perché gli occhi azzurri non mi fanno dormire. Un’infanzia rovesciata, all’improvviso. Alice chiudeva gli occhi di tanto in tanto. La lasciai riposare e continuai a portare avanti i miei pensieri. Nella mia immaginazione Taranto era il luogo dove passare le vacanze estive dai nonni, una villa al mare, un dialetto diverso, l’insegna del Mon Reve, la mia piccola Hollywood. La pizza da Citemmuert, le sciarpe rossoblu in camera, con mia madre che provava invano a trasmettermi una passione calcistica troppo lontana per me, cresciuto con il calcio in televisione. E quello sponsor Ariston, la fabbrica dove lavorava papà, così dicevo con orgoglio a tutti gli amici del mare in estate, che campeggiava sulle maglie della mia squadra del cuore. Non potevo certo perdere tempo con il Taranto. Con De Vitis, Spagnulo e D’Ignazio. Avevo da fare con Platini e Boniek, quelli che indossavano la maglia dell’Ariston. La fabbrica dove lavoravano papà e mamma. Poi lei si svegliò e quei pensieri svanirono nuovamente.

 «A che pensi?» mi domandò Alice.

«Che i miei genitori mi portavano spesso da queste parti, da piccolo.»

«Ti fa commuovere la cosa?»

«No, perché?»

«Hai gli occhi lucidi, ma forse è un riflesso della luna.»

Non era un riflesso della luna. È che io mi commuovo sempre a pensare a loro. Fecero una scelta coraggiosa in un’epoca improbabile, fatta di lustrini e pailettes, di spettacoli televisivi come Drive In e il Maurizio Costanzo Show. In un tempo di promesse e telequiz, gettoni d’oro facili e consigli per gli acquisti. Altro che l’America. Virarono verso una vita di lavoro e sacrificio, in un paese lontano dal loro mondo, prima ancora che dalla loro città.

«Posso chiamarti Alice?» le dissi alle porte di Roma.

«Preferisco Elis. Anche se mio padre avrebbe desiderato Aliicce (lo pronunciò così, forzandolo). Ma io resto americana. Anzi californiana. E se puoi chiamarmi Elis sono più contenta.»

Era affascinante quella storia. Una pronuncia per sua madre, una per suo padre, due suoni così diversi eppure un nome scritto in una sola maniera. Mi accorsi di essere arrivato sul raccordo, ed erano soltanto le tre. Chiesi ad Alice se aveva voglia di dormire visto che avevamo qualche ora a nostra disposizione prima della partenza.

«Non ci riuscirei, e poi non ho abbastanza soldi. Sei stato fin troppo gentile. In aeroporto il tempo passerà in fretta.»

Volevo evitare di sembrare sfacciato, ma non volevo lasciarla andare così, sprecando quel tempo che avrei potuto passare con lei.

«Puoi restare con me fino a domani?» Mi chiese, impulsiva.

E il tempo si fermò ancora. Pensavo fosse la frase più bella che avrebbe potuto dirmi. Poi ne arrivò un’altra, dritta al cuore, a svegliarmi dal torpore delle mie notti così identiche una all’altra.

«Lo faresti l’amore con me adesso?»

Avrei voluto chiedere perché. Cosa le faceva pensare che quella fosse la soluzione migliore per ingannare la notte. Ma rischiavo di rovinare tutto, parlando. Una sola parola e avrei mandato tutto a puttane. E così la guardai e basta, cercai un posto dove fermarmi mentre il cuore mi batteva forte per l’emozione. Non feci trapelare nessuna indecisione. Macchina o albergo a quel punto era uguale, ma la seconda ipotesi rischiava di farmi perdere tempo prezioso. E di farla passare per quella che non era. Accostai. Lei mi saltò addosso e mi sbottonò la camicia. Le sfilai il maglioncino prima, la maglietta poi. A quel punto solo un ultimo ostacolo mi separava dal suo seno prorompente. Che presto mi invitò a scoprire, spostando dolcemente la coppa del wonderbra. La baciai con foga. Le sue mani, le labbra da morsicare, i tatutaggi presenti sul suo corpo candido. Carta bianca per un racconto fatto di simboli e citazioni da portare addosso per tutta la vita. Mentre mi slacciava i pantaloni mi soffermai a guardare il tatuaggio sulla spalla destra. Era strano vedere una pistola su un corpo così leggiadro, accanto ad un volto così angelico. In qualunque altro momento le avrei chiesto il significato di quella pistola, ma mi limitai a tenere alto il livello di eccitazione e a leggere ciò che c’era scritto vicino al disegno “Killing me softly”. Per un secondo solo mi spaventai. Poi le entrai dentro e la sentii gemere. Dolcemente. I suoi capelli sul mio volto, la spalle, e quella pistola che spingevano contro il mio viso. Una, due, tre volte.

«Bravo. Bravo. Sei Bravo» mi diceva.

«Elis» risposi con il suo nome. Il suono più bello del mondo, per lei.

Venni. E cancellai le paure.

(… continua)

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Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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