Non ritornai a Roma per un po’. Quelli della Wayo non mi cercarono e io non feci nulla per farmi trovare, in verità. Ripresi la mia roba e tornai a Bologna, deciso a finire l’università. Marcello mi riaprì le porte dell’appartamento di via Centotrecento e io ricominciai a studiare. Almeno una cosa buona quelli della Wayo l’avevano fatta. In meno di cinque mesi terminai gli esami e mi laureai con una tesi sul Club 27, una maledizione che aveva coinvolto tanti grandi artisti con lo stesso identico e tragico destino: quello di morire a 27 anni. La mia tesi non era solo una buona scusa per parlare di artisti come Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison (tutti avevano una J nelle iniziali, che coincidenza) e Kurt Cobain. Era un’analisi approfondita sulla cabala e sulle controversie del rock. Alcuni dei membri, come Kurt, si erano suicidati e il numero delle vittime, spesso si contano solo quelle più famose, era arrivato a quarantadue. Io potevo stare tranquillo. Avevo ancora 3 anni per diventare una rockstar e spegnermi, ma dopo quel Festival di Sanremo non mi avrebbero annoverato nemmeno nel club degli invisibili, altro che rockstar. Tornai a Bologna più che altro che non farmi vedere a Bari. Nella mia città i rapper e i duri del rock non potevano proprio fare a meno di insultarmi per il solo fatto di aver provato a campare di musica e a vendere qualche cd. Una colpa troppo grande per uno che avrebbe dovuto vivere di stenti e morire di fame come tutti gli artisti che si rispettino. D’estate trovai un lavoretto come animatore in un villaggio turistico. Conobbi un punk a cui feci ascoltare tutte le canzoni bocciate dalla Wayo durante la mia breve parentesi romana.

«Ehi, ma questi pezzi sono forti – disse – perché non ricominci facendo di testa tua?» Troppo facile per un punkabbestia. Era quello che mi diceva sempre Ciccio, in fondo. Ma io avevo perso tutto: la stima dei colleghi, quella dei musicisti e soprattutto di me stesso. Una sera mi trovavo ad una festa e ad un certo punto alcun rapper iniziarono a passarsi il microfono. Non so perché decisi di partecipare, volevo solo divertirmi, essere uno dei tanti e giocare a fare delle rime. Dovevo sospettare subito che la serata si preannunciava storta per me, quando nessuno mi passava il microfono. Poi uno sprovveduto che non aveva riconosciuto il Martin Lutero che era in me mi affidò quel dannato attrezzo. Cominciai ad improvvisare e mi sentii anche a mio agio cantando. Ero uno dei tanti e questo mi faceva sentire meglio. Finchè passai il microfono ad un ragazzo con il cappellino da baseball sulle orbite. Mai passare il microfono ad un ragazzo con il cappellino da baseball sulle orbite. Sono quelli che si scrivono le rime sulla visiera. E infatti il tipo iniziò a insultarmi di brutto, perché ero stato a Sanremo, perché mi chiamavo Boavida e via dicendo. La gente voleva che io rispondessi al B-boy a colpi di rime ma io non riuscii a dire, né a cantare, nulla. Fu così che i rapper a turno iniziarono una vera e propria campagna diffamatoria nei confronti del sottoscritto e quando andai a chiedere spiegazioni al rapper mi rispose:

«Tu non vali niente. Sei un ipocrita e non rappresenti un cazzo»

Inutile dire che ogni successivo tentativo di inserimento negli ambienti ortodossi si rivelò fallimentare. E così decisi che non avrei più messo piedi in ambiente in cui si mette in competizione la propria arte come in una gara d’atletica perché a me non interessava essere il migliore. Si fosse trattato di competizioni canore come Sanremo o stupide gare tra inferociti rapper di provincia.

 

Tutto quello che volevo era tornare ad essere Ernesto. Per questo mi misi a cercare lavoro e continuai a fare musica solo per me stesso. Mia madre, che tanto aveva combattuto per vedermi studiare era arrabbiata per il fatto che avessi abbandonato la musica.

«Ma mamma, io continuo a suonare, mica ho smesso.»

«Si, ma in TV non ci vai più.»

In Tv. Era tutto ciò che contava. Mica si era resa conto che per colpa di tutto quell’ambaradan avevo perso gli amici, la bussola e non avevo guadagnato un euro bucato.

«Mamma, c’è chi sfonda con Sanremo e chi vive una bella esperienza e poi se ne torna a casa. Io non rinnego niente però adesso devo valutare un po’ di cose…»

«La Provincia ha fatto un bel bando…»

«Si mà, non mi sono laureato per lavorare alla Provincia.»

«Bisogna consegnarlo entro la prossima settimana.»

«Mamma, non ti ho chiesto quando bisogna consegnarlo.»

«Credo che la paga sia discreta, e poi devi iniziare a fare qualche concorso…»

Pur di non fare quel concorso e di non compilare quel bando iniziai a mandare curriculum a tutte le riviste di musica. In fondo ero sempre stato bravo a scrivere e l’idea di fare il critico o l’inviato musicale poteva consolarmi. Il problema era proprio quello. Cercavo consolazione, quindi un ripiego. Ma quando i direttori di testata mi riconoscevano capivano immediatamente chi ero ed evitavano accuratamente di chiamarmi. Fece eccezione qualche mese dopo il dottor Ceravolo della rivista “Il Mucchio” che mi propose uno stage. Andai a trovarlo a Milano, per capire se il gioco valeva la candela. Tanto per cominciare dovevo trasferirmi un’altra volta. Non che fossi così legato a Bologna, come non lo ero a Bari e tantomeno a Roma. Solo che cominciavo ad essere stufo di tutti questi spostamenti a vuoto.

«Sei giovane, io all’età tua avevo già cambiato quattro filiali, e nei paesi più sperduti, mica Bologna, Roma e Milano.» Mi disse mio padre per incoraggiarmi.

«Si, ma io a differenza tua mi muovo sempre gratis.»

«Esperienza Ernè. Si chiama esperienza. E tu potrai dire ai tuoi figli che sei stato al Festivàl – disse proprio così, rigorosamente con l’accento sulla a –  altro che tuo padre, una vita a fare i conti in tasca agli altri. Non ti buttare giù. Sei bravo e la tua storia è ancora tutta da scrivere.»

«Hai lavorato bene papà. E mi hai dato tutto. Sei tu il vero eroe in famiglia.» Lo feci commuovere.

«E mi raccomando, non fare il critico severo, che quelli sono odiosi. Sii rispettoso del lavoro degli altri, che un giorno potresti tornarci tu da quella parte.»

«Io ho smesso papà.»

«Non dirlo neanche per scherzo, non hai neanche venticinque anni. Tutto da scrivere, ricorda.»

Tutto da scrivere. Infatti da quel giorno mi misi a farlo. Raggiunsi Milano e mi sistemai nello studentato Zumbini dal momento che il budget che avevo a disposizione non era certo sufficiente per affittare un appartamento, visti i prezzi proibitivi. La rivista “Il Mucchio” apparteneva ad una holding italiana molto importante quindi, anche se ero stato assunto in prova, potevo considerarmi fortunato. Peccato che la holding in questione appartenesse alla famiglia del primo ministro. La sua coalizione aveva cambiato nome: dal gelido “Polo della Libertà” si era passati a una più rassicurante “Casa della Libertà” con omaggio alla trasversale “Casa del Grande Fratello” che da qualche anno aveva risucchiato l’attenzione e le speranze degli italiani. Era il periodo dei girotondi. Nel mirino non solo il Governo ma anche quella finta opposizione alla quale si imputava la sospetta flemma e la colpevole leggerezza che avevano esibito al momento di riconsegnare il paese all’uomo della libertà. Turbati dalle ricostruzioni degli omicidi e di molto in pena per i micetti trascurati di cui li informava Studio Aperto, gli italiani erano alla mercè di un’informazione nazionale controllata a pieno titolo dal Governo. Eppure sembrava che il responsabile di tutta quella situazione fossi io, che ero andato a lavorare per “Il Mucchio”. Un motivo in più per farmi odiare dai puritani della musica insomma, qualora ne avessi avuto ancora bisogno.

«Ma cosa ci vai a fare?» Mi domandavano increduli certi filosofi rinchiusi nelle loro aulette. «Quello era della P2!»

«Cosa devo fare, morire di fame perché gli editori sono delle P2?»

Tutti mi guardavano delusi: per loro era il minimo che un critico musicale, ex cantante, seguitasse nel progetto di provare a morire di fame. L’incredulità montava oltre il livello di guardia se gli facevo notare che nell’edificio di Cinisiello Balsamo non lavoravano figure mitologiche con il corpo di uomo e la testa di cazzo, ma persone in carne e ossa di nome Marco, Paolo, Marina, e nessuno di loro mi era parso men che colto, gentile, democratico. Io mi occupavo di recensioni, soprattutto di gruppi emergenti, presentandomi come Ernesto Celi e occultando il fatto di essere stato un cantante emergente anch’io fino a qualche mese prima. I miei pezzi erano molto apprezzati in redazione. Non avevo perso l’abilità nella scrittura e il fatto di avere un buon orecchio mi permetteva di scovare qua e là giovani talenti interessanti. Per tre mesi lavorai praticamente gratis, poi iniziarono a pagarmi a cartella e infine mi assunsero con un contratto a progetto di 760 euro al mese. Non si poteva certo dire che fossi un privilegiato, ma a differenza di molti miei coetanei avevo un motivo, neanche troppo odioso, per alzarmi la mattina, e quindi non mi lamentavo. Certo, a Milano si faceva una fatica nera. Ma con l’aiuto di mio padre e mia madre riuscii anche a mettere un po’ di soldi da parte per comprarmi un Mac che mi serviva a comporre le basi per la musica che avevo intenzione di fare. Visto che nelle relazioni sociali ero un disastro, avrei imparato a suonare da solista. Non ci credevo nemmeno io alla promessa che avevo fatto: quella di chiudere per sempre con la musica.

Content & Community manager. Storytelling addicted. Scrivo markette per campare e romanzi per passione. Un giorno invertirò la tendenza. Domani no.

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